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CRONACA

I calciatori si ammalano di Sla, ma non c'è correlazione con le squadre

Cinzia Franciò

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cfrancio@laprovinciacr.it

28 Aprile 2020 - 14:26

ROMA (28 aprile 2020) - I calciatori si ammalano di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) prima e più della popolazione generale, ma non vi è alcuna associazione fra l’insorgenza della malattia e le squadre in cui hanno militato. Lo hanno dimostrato i ricercatori dell’Istituto Mario Negri con uno studio che ha completato e aggiornato quello già pubblicato lo scorso anno, quando era stata dimostrata solo la correlazione fra il gioco del calcio e l’insorgenza di questa malattia neurologica. Lo studio condotto da Elisabetta Pupillo e da Ettore Beghi del Mario Negri, in collaborazione con Nicola Vanacore dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) e con l’Associazione Italiana Calciatori (Aic) è stato pubblicato sulla rivista Amyotrophic Lateral Sclerosis & Fronto Temporal Disease.

La ricerca era partita dall’esame di 23.586 calciatori, individuati tramite gli Almanacchi Panini, che hanno giocato nelle serie A, B e C dalla stagione 1959-'60 fino a quella del 1999-2000. Ora, l’aggiornamento dello studio al 2019 ha individuato 34 casi di SLA. I più colpiti risultano essere i centrocampisti: 15; più del doppio degli attaccanti: 7; mentre i difensori sono 9 e i portieri 3. Il rischio di SLA tra gli ex-calciatori è circa 2 volte quello della popolazione generale, e sale addirittura di 6 volte analizzando la sola Serie A. «I dati definitivi - commenta Ettore Beghi del Dipartimento Neuroscienze dell’Istituto Mario Negri - ci dicono che le differenze sull'età d’esordio si confermano importanti. I calciatori si ammalano in media a 45 anni, cioè con 20 anni in anticipo rispetto al resto della popolazione. La motivazione purtroppo non è ancora chiara».

Lo studio, dice Elisabetta Pupillo, Capo Epidemiologia delle Malattie Neurodegenerative del Mario Negri, «conferma invece che non vi è alcuna associazione tra le squadre in cui i calciatori hanno militato e l’insorgenza della malattia. Altri studi fatti insieme a colleghi europei e americani ci fanno pensare che la causa non sia il gioco del calcio in sé ma una serie di concause, ancora da definire. Tra queste il ruolo dei traumi, l'attività fisica intensiva, una predisposizione genetica».

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