L'ANALISI
20 Febbraio 2017 - 14:13
Il Comune di Cremona ingaggia un esperto in aziende partecipate al costo di 17.000 euro l’anno Iva compresa. L’incarico dura 12 mesi prorogabili. Al consulente sono richieste conoscenze giuridiche ed economiche finalizzate alla attuazione del piano di razionalizzazione richiesto dalla normativa vigente. In parole povere serve un tecnico che indichi come gestire un rapporto diventato problematico da quando queste aziende sono finite nel mirino del commissario per la revisione della spesa pubblica. La prima domanda che sorge spontanea è la seguente: tra i 700 dipendenti comunali, tra impiegati e dirigenti, non ce n’è uno in possesso dei requisiti richiesti? Non c’è in organico un tecnico in grado di stabilire che cos’è utile e che cosa invece non serve? Per fissare una linea di demarcazione non occorre un laureato ad Harvard. Basta vedere che compiti hanno e che cosa effettivamente fanno le varie società partecipate. L’ipertrofia burocratica è un virus che ha infettato tutta la Pubblica amministrazione. Dall’inizio degli anni Ottanta sono state create con risorse della collettività società di capitali esterne che hanno occupato i più disparati settori, da quelli produttivi ai servizi. Nelle società partecipate una quota di capitale è di proprietà di un ente pubblico. Nelle controllate l’ente detiene la maggioranza assoluta delle quote. Carlo Cottarelli, già commissario alla spending review, ‘licenziato’ da Matteo Renzi, ha messo il dito nella piaga con il suo studio sulla giungla delle quasi ottomila partecipate – la Francia ne ha un migliaio - dal quale risulta che una società su quattro delle seimila censite non ha dipendenti e che in metà di quelle comunali ci sono più poltrone che addetti.
Dunque a che cosa servono? Principalmente a foraggiare il sottobosco politico. Garantiscono stipendi a personaggi che gravitano attorno ai partiti. Queste società hanno anche un’altra funzione: consentono la gestione politica di pezzi importanti dell’economia. I componenti dei consigli d’amministrazione sono spesso chiamati a intrattenere relazioni clientelari che talvolta sfociano nel malaffare. I cittadini e gli stessi enti locali non partecipano alla gestione delle aziende. Non c’è coinvolgimento popolare nella guida, nella responsabilità e nei benefici delle partecipate che peraltro occupano una fetta importante dell’economia. Basti considerare che il bilancio delle società partecipate della Valle d’Aosta è di 1.182 milioni di euro e quello regionale è pari a 1.870 milioni. Dall’avviso di selezione pubblica del Comune risulta che la figura esterna che a Cremona si occupa di partecipate già c’è, ma che il suo apporto è necessario anche per il 2017. Deve avere almeno cinque anni di esperienza nel campo specifico di intervento e seguirà Aem, Cremona Solidale, Padania Acque, Centro Padane e la neonata Servizi per Cremona. Nel rifare la domanda iniziale – non esiste un dipendente o un dirigente comunale in grado di svolgere questo lavoro? - viene spontaneo chiedersi se il tecnico in questione abbia come obiettivo la riduzione dei costi, cioè i tagli delle spese e dei consigli d’amministrazione. Si spera che il professionista esterno intervenga almeno sulle consulenze che le partecipate sono solite assegnare. Il caso forse più clamoroso è quello di Scrp, la Società Cremasca Reti e Patrimonio che non è stata in grado di gestire l’appalto della gestione dei rifiuti, ma che ha sviluppato meglio di chiunque altro il ramo delle consulenze, assegnandone a destra e a manca.
Mentre in provincia si ingaggiano esperti per studiare e gestire il fenomeno, a Roma il piano di Cottarelli è finito in un cassetto. E anche la riduzione delle società partecipate ha cessato di essere una priorità, come molte altre emergenze dell’Italia gattopardesca in cui tutto cambia per restare com’è.
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