L'ANALISI
13 Dicembre 2016 - 04:00
La bocciatura del progetto di riforma costituzionale ha prodotto quanto meno un effetto positivo: scompaiono le aree vaste dal lessico politico e dall’immaginario collettivo. Uscite dal cilindro di Delrio, erano lo spauracchio un po’ di tutti. Temute dalle città minori che avrebbero finito con l'essere fagocitate dalle vicine economicamente più forti, popolose e meglio strutturate, erano motivo di preoccupazione anche per i centri intermedi che non potevano assurgere a realtà metropolitane e che erano costrette a scegliersi un partner. Troppe unioni forzate, benché teoriche, avevano riacceso rivalità storiche creando non poco imbarazzo. Ne abbiamo avuto una rappresentazione plastica anche in casa nostra coi separatisti cremaschi che riaprivano la contesa con gli ‘invasori’ cremonesi. A tutta la retorica che ha accompagnato la difesa della Costituzione nel dibattito pre referendario si è aggiunta quella sulle nuove aggregazioni territoriali che ha svelato miseri calcoli di bottega dell’uno e dell’altro politico e una generale miopia degli amministratori locali che inseguivano sogni irrealizzabili. Pensiamo al sindaco di Crema che ha fatto balenare l’idea di un impossibile matrimonio con Lodi, non voluto dalla Regione e nemmeno dagli stessi lodigiani. Su queste ipotesi campate in aria si sono organizzati convegni e versati fiumi di parole e di inchiostro: tempo ed energie sprecate che era meglio impiegare per costruire qualcosa di buono. Non è un bene che sopravvivano i simulacri delle Province, non più amministrate da organi eletti dai cittadini, private di buona parte delle loro competenze, con pochi mezzi e metà dei dipendenti.
E' invece positivo che, accantonate le aree vaste, si blocchi il processo di aggregazione tra Cremona e Mantova e che Crema abbandoni ogni velleità secessionista. Poteva avere un senso la grande provincia padana del sud Lombardia, comprendente i territori lodigiano, pavese, cremonese e mantovano. Avrebbe avuto un peso economico e politico tale da compensare quello delle zone pedemontane e da non risultare marginale negli equilibri regionali e al cospetto della città metropolitana di Milano. Invece la pura e semplice aggregazione amministrativa tra Mantova e Cremona ci avrebbe penalizzato. Già si è visto quanto poco contiamo nella ripartizione delle competenze sanitarie. Senza colpo ferire i mantovani si sono appropriati della direzione della nuova Ats, trasferita nel capoluogo virgiliano, e altrettanto si apprestano a fare con la Camera di commercio. L’area vasta Cremona-Mantova ci avrebbe visti in posizione subalterna ai nostri cugini, ben più dinamici e intraprendenti di noi. Siamo un territorio disunito che paga lo scotto dell’assurda e anacronistica rivalità tra Crema e Cremona e della mancanza di leadership. A onor del vero il sindaco Galimberti ha provato ad assumere il ruolo di guida che compete al rappresentante del Comune capoluogo ma la sua collega Bonaldi l’ha abbandonato a metà strada. Ha rotto un’alleanza naturale e obbligata per inseguire chimere milanesi e lodigiane. Oggi la nostra provincia, intesa come aggregazione di municipalità aventi interessi e obiettivi condivisi, è più sfilacciata che mai. La sua debolezza può essere una delle cause della perdita di posizioni nella classifica della qualità della vita, commissionata dal quotidiano Italia Oggi. Al primo posto svetta Mantova che scalza Trento. Cremona è solo ventiquattresima. La soddisfazione di avere scalato quattro posizioni rispetto al 2015 non compensa la delusione di vedere le province limitrofe fare meglio di noi. Pur con tutti i limiti propri delle graduatorie del benessere, è preoccupante il divario che ci separa dai territori che confinano con noi.
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