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Ascoltiamo i sindaci ma il coro va diretto

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emanzini@laprovinciacr.it

22 Giugno 2016 - 15:32

Ascoltiamo i sindaci ma il coro va diretto

Il premier Renzi allontana lo spettro della sconfitta, ripetendo a sé e agli altri che le elezioni per il rinnovo dei consigli comunali non si riverberano sul governo. Tutti, lui compreso, sanno che non è così. Da sempre le amministrative rappresentano un test per il partito e per la coalizione al potere. Mai come adesso governare logora. Il gradimento svanisce come neve al sole: qualsiasi riforma scontenta qualcuno e la perdita di consenso è automatica. Le difficoltà economiche che ancora pesano sulle famiglie e sulle imprese, a dispetto dei ripetuti proclami del premier che vede segnali di ripresa a ogni stormir di fronde, rendono ancora più complicato il lavoro dell’esecutivo. Quella odierna non è una semplice elezione dei sindaci. Non lo è innanzi tutto perché il centrosinistra parte da una posizione di predominio: ne ha 16 uscenti nei 20 comuni dove si vota, partecipa a 17 ballottaggi su 20 e in 10 è in vantaggio. Perdere qualche città non è una tragedia ma è un campanello d’allarme per un primo ministro che ha trasformato il referendum costituzionale in un sondaggio su se stesso. L’esito della voto odierno è tutt’altro che scontato: solo in 4 comuni il divario al primo turno tra i due candidati è stato superiore ai 15 punti percentuali (Caserta, Napoli, Bologna e Ravenna) e in appena 8 città il vincente del primo turno ha superato la soglia del 40%.
Alle amministrative è fondamentale la scelta del candidato, ma la possibile conquista di Roma da parte dei grillini più che una vittoria personale di Virginia Raggi sarà la naturale conseguenza delle due disastrose precedenti tornate amministrative che portano la firma del centrodestra con Gianni Alemanno e del centrosinistra con Ignazio Marino.
Piaccia o meno al Premier, quelle di Roma, Milano, Torino e Napoli, cioè le principali città dove oggi si vota, sono prove d’esame per il governo, per il Pd e per lui stesso.
E’ sintomatico il fatto che a creare fibrillazione nel principale partito italiano e timori al suo segretario siano i sindaci, cioè le figure che intercettano aspettative e raccolgono umori e rancori dei cittadini. Anche il Pd locale è in crisi, per usare un eufemismo. Il territorio è lacerato da rivalità che il gruppo dirigente non riesce a comporre. Le dimissioni dalla segreteria manifestano un disagio che non è soltanto interno. La componente cremonese e quella cremasca si sono scontrate sulla costituenda Area omogenea e restano arroccate sulle rispettive posizioni: Cremona vuole unirsi a Mantova mentre Crema si fidanza con Lodi. I sindaci Galimberti e Bonaldi seguono l'onda e il Pd, partito di riferimento per entrambi, si dimostra incapace di governare il processo, per dirla in politichese. Crema e Cremona litigano sull’accorpamento delle scuole, con la prima che cerca nuovi spazi di autonomia e la seconda che tenta inutilmente di applicare la legge. Si moltiplicano le spinte centrifughe in un territorio che il Pd non riesce più a tenere unito e nel quale ciascuna delle altre forze politiche, da Forza Italia alla Lega al M5S, non ha la dimensione e la struttura per rappresentare gli interessi generali. Già prevalgono quelli delle singole municipalità. Il Pd cremonese, lacerato da rivalità e beghe interne, non fa più politica. Non elabora progetti di sviluppo del territorio. Non indica alle amministrazioni comunali della sua stessa area le linee da seguire. Qualche sindaco, finalmente libero dal giogo del partito, gongola. Ma di questo passo la nostra provincia, divisa, litigiosa e inconcludente, è condannata ad avere un ruolo sempre più marginale in regione e a livello nazionale. Quando anche l’ultimo centro decisionale sarà stato trasferito a Mantova, Lodi o Milano, ci accorgeremo che le voci dei sindaci sono importanti purché ci sia qualcuno in grado di dirigere il coro.

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