L'ANALISI
25 Gennaio 2016 - 10:19
Le parole sono pietre. Pesano come macigni quelle contenute nella lettera scritta dai responsabili del centro sociale Dordoni di Cremona a La Provincia e pubblicata martedì. Ripropongono in chiave giustificativa la violenza cieca e gratuita di un anno fa. Il 24 gennaio 2015 la forza bruta si manifestò con aggressioni e danneggiamenti, condannati giovedì dal tribunale di Cremona da una sentenza esemplare che riconosce il reato di devastazione.
Quella stessa violenza, che appartiene ad ogni forma di estremismo — politico, religioso, ideologico e sportivo — riemerge con prepotenza nello scritto, quasi un manifesto, affidato dagli antagonisti alla stampa. Gli autonomi non riconoscono alle istituzioni il privilegio di avere occupato per anni uno spazio pubblico.
Le accusano invece di complicità con CasaPound per averne tollerato la presenza in città da cinque anni. Mistificano i fatti, sostenendo di essere stati vittime di un’aggressione fascista, quando le indagini hanno dimostrato che furono gli autonomi a tendere un agguato ai loro nemici, il 18 gennaio dello scorso anno nei pressi dello stadio. Ebbe la peggio il compagno Emilio, ridotto in fin di vita e salvo per miracolo. Per questo gravissimo episodio del quale sono responsabili, i militanti di CasaPound sono indegni di una sede in città che li legittima. Con la manifestazione nazionale antagonista, alla quale invitarono black bloc e attivisti di altri centri sociali, gli autonomi cremonesi intendevano vendicare il ferimento del loro compagno ed esprimere, come essi stessi scrivono, ‘tutta la rabbia nei confronti dei responsabili, diretti e indiretti’. Uno Stato di diritto vieta di farsi giustizia da sè e affida a un organismo superiore la gestione di questa funzione indispensabile per la corretta convivenza civile. Non si possono tollerare atti gravi come quelli compiuti durante la guerriglia urbana esplosa un anno fa.
Sapevano che le forze dell’ordine avrebbero impedito loro di raggiungere CasaPound, che volevano incendiare. Perciò si sfogarono su quelli che stupidamente considerano simboli del capitalismo: banche e assicurazioni. Lo scorso 24 gennaio hanno alzato la testa, come scrivono adesso. Hanno mostrato il loro vero volto a chi ancora vuole credere che l’i n t o lleranza e la violenza appartengano solo alla destra. Mentono sapendo di mentire, dicendo che agenti e carabinieri erano schierati a difesa dei fascisti quando invece erano impegnati a evitare scontri tra le opposte fazioni e spargimento di sangue. Dipingono la polizia attingendo ai luoghi comuni della retorica sessantottina, nella vana speranza di giustificare la loro aggressione come un atto di ribellione a chi permette che si eseguano sfratti di famiglie indigenti, sgomberi di picchetti di lavoratori in sciopero e la costruzione della Tav in Val Susa. La lettera del Dordoni è un manifesto a favore dell’illegalità, in nome di un’immaginaria giustizia proletaria. Ed è l’annuncio di future lotte che saranno verbali finché non si presenterà di nuovo l’o c c a s i one per passare alle vie di fatto. Ieri c’è stata offerta u n’anteprima, una prova generale di ciò che può accadere al minimo pretesto. Una parte consistente della città è rimasta in ostaggio dei manifestanti che volevano arrivare in centro, replicando il copione dello scorso anno. Ma stavolta non erano in numero sufficiente e abbastanza organizzati per tentare di forzare il blocco e si sono dovuti limitare agli slogan. Le istituzioni lo scorso anno fecero l’errore di autorizzare il corteo. Il sindaco si era opposto, ma poi fu costretto a subire una decisione che esulava dai suoi poteri. Abbiamo visto con che risultati. La stessa risolutezza mostrata in quel frangente, Galimberti l’abbia adesso, nel mantenere la promessa fatta ai cremonesi quando la densa cortina di fumo dei lacrimogeni ancora velava la città: sfratti il Dordoni e trovi il modo di liberarci da CasaPound.
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