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GIOVANI ALLA RIBALTA

«Con la Fura del Bus mi sono sentito vivo»

Voltini racconta la sua esperienza nel gruppo spagnolo. Ora in scena in Cantando sotto la pioggia

Nicola Arrigoni

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narrigoni@laprovinciacr.it

30 Dicembre 2025 - 05:20

«Con la Fura del Bus mi sono sentito vivo»

L’attore e performer Adriano Voltini e una scena di ‘Sons’, spettacolo liberamente ispirato ad Amleto di Shakespeare in scena alla Fabbrica del Vapore di Milano

CREMONA - Ha uno sguardo che brilla, un brillare che tradisce un’ombra d’inquietudine. Adriano Voltini, ballerino, performer e attore, è nato all’interno della Compagnia dell’Ago, una realtà fiorita nella comunità dell’oratorio di Sant’Agostino, ma che ha gemmato professionisti dello spettacolo, oltre a Voltini anche Matteo Giambiasi, attualmente a Londra.

La passione del teatro passa per entrambi attraverso la pratica del musical e la sua fascinazione, attraverso la scuola di musical agli Arcimboldi di Milano che ha portato l’attore cremonese a incontrare gli artisti spagnoli de La Fura del Baus che alla Fabbrica del Vapore hanno portato in scena ‘Sons’, una libera e immersiva versione dell’Amleto di Shakespeare.

Oggi Adriano Voltini è di nuovo in scena con il musical che sta facendo una tournée degna di tempi delle compagnie scavalcamontagne, ‘Cantando sotto la pioggia’, un ritorno a casa me con sulle spalle la folgorazione poetica, etica e politica della Fura del Baus che ha profondamente cambiato il giovane interprete cremonese, cambiamento che parte dal suo sguardo.

Adriano Voltini in scena ricoperto di creta

Come nasce il suo incontro con la Fura del Baus e con lo spettacolo Sons?
«Nasce da un provino che, di fatto, era già un’esperienza performativa. Mi hanno ricoperto d’argilla, fatto lavorare sulla scomposizione del corpo, sull’uscire da una bara. Era chiaro che non si trattava di ‘mostrare’ qualcosa, ma di attraversarlo. ‘Sons’ prende spunto dall’Amleto, ma lo fa in modo molto libero: gioca sull’acronimo spagnolo ser o no ser, essere o non essere, e mette una lente su alcune tematiche rendendole politiche, disturbanti, mai consolatorie».

In che senso ‘disturbanti’?
«Nel senso che la Fura non vuole lasciarti invariato. Non esci dalla sala come sei entrato. Anche se la reazione è negativa – c’è chi dice ‘è uno schifo, voglio andarmene’ – quello è già un risultato. È un teatro che va contro il concetto di comfort. Carlos Padrissa dice sempre che lo spettacolo non deve essere perfetto: se tutto fila liscio, sei ancora in una zona sicura. Loro lavorano nel caos, e il caos è dichiarato. Tutto ciò mette in crisi non solo il pubblico».

Questo approccio quanto incide sul lavoro dell’attore?
«Tantissimo. Prima di tutto nel training: è un teatro fisico vero, con molto lavoro aerobico, molta resistenza. Devi essere allenato e soprattutto devi lasciarti andare. Non c’è una struttura verticale, non c’è gerarchia: siamo un movimento collettivo. Questo crea un clima di grande libertà, anche nella brutalità di certe immagini. Tutto ciò non lascia indifferente, ti scuote dentro e capisci che ciò che accade ha una sua potenza emotiva e fisica che accetti o rifiuti, il teatro non è uno svago, non è una zona di confort, almeno per la Fura del Baus».

Il pubblico in Sons è estremamente coinvolto.
«Sì, ed è una delle cose che più mi ha cambiato. Il pubblico non osserva: subisce e partecipa. Nella ‘guerra dell’acqua’, per esempio, saliamo sui tralicci, sputiamo acqua sulle persone, altri attori lanciano bottiglioni. C’è chi si ripara, chi scappa, chi reagisce. Ogni sera è diversa. Questo modifica completamente la fruizione e anche la responsabilità dell’attore, ti mette in crisi, ti interroga, ti cambia. Almeno questo a me credo sia successo».

C’è una scena che sente particolarmente sua?
«La scena finale. Resuscitiamo questi corpi morti, i Sepultureros, e torniamo come esseri appena nati, ricoperti di fango. Ci muoviamo tra il pubblico, cerchiamo contatto. Alcuni si lasciano abbracciare, altri scappano per non sporcarsi. È un momento molto catartico, per noi e per loro. Dopo aver parlato per tutto lo spettacolo di vita o morte, di essere o non essere, ti ritrovi a chiederti: ‘e adesso cosa faccio, in questo mondo?’».

L’aspetto acrobatico e performativo è molto presente nei lavori de La Fura del Baus, fino a danze aeree.
«Sono stato utilizzato come figura dell’ombra del padre, appeso come un corpo morto. Lavorano moltissimo con riggers e dispositivi tecnici molto complessi. Io arrampico, quindi per me è stato naturale. Anche questo aspetto ha inciso molto sul mio modo di pensare il corpo in scena. Lavorare con la Fura del Baus ha richiesto molto riscaldamento aerobico, lavoro costante sul corpo, sulla resistenza. Devi lasciarti andare. È un teatro fisico vero, che richiede presenza totale».

Dopo un’esperienza così radicale, torna al musical. Che effetto le fa?
«Torno a un teatro più confortevole, lo so. Il musical è intrattenimento, è casa. Ma torno diverso. Più consapevole, meno intimorito. Dopo aver rotto così tanto la quarta parete, rimetterla non è un limite: anzi, senti di più il corpo, la presenza. Questa esperienza mi ha ‘ripulito’ anche umanamente. Avevo bisogno di buttare fuori, senza pressione performativa».

Guardando al Suo percorso – dalla Compagnia dell’Ago a Sherlock Holmes, fino a Sons – cosa sente sia cambiato?
«Il punto di vista. La Fura mi ha insegnato che il teatro può e deve coinvolgere, destabilizzare, creare esperienza. In Italia abbiamo troppe divisioni concettuali tra danza, musica e teatro. Ma alla fine un corpo è un corpo. E oggi più che mai abbiamo bisogno di un teatro che non anestetizzi, ma che attivi. Sons è stato uno spartiacque: dopo, non guardi più il palco allo stesso modo».

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