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IN SCENA AL PONCHIELLI

Con Bellini e I Puritani melodramma all’apice

L’ultima opera del compositore catanese intreccia introspezione e brillantezza virtuosistica

Giulio Solzi Gaboardi

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redazione@laprovinciacr.it

04 Dicembre 2025 - 05:15

Con Bellini e I Puritani melodramma all’apice

CREMONA - «Mi trovo all’apice del contento! Sabato sera è stata la prima rappresentazione dei Puritani: ha fatto furore, che ancora ne sono io stesso sbalordito… Il gaio, il tristo, il robusto dei pezzi, tutto è stato marcato dagli applausi, e che applausi, che applausi». Così scrive, in un discutibile italiano, Vincenzo Bellini all’amico Francesco Florimo, dopo la prima de I puritani. Ultima opera del compositore catanese, nata nel 1835 per il Théâtre-Italien di Parigi, Puritani è spesso letta come un testamento spirituale: non tanto un addio, quanto la piena, estrema fioritura di quella «melodia lunga» che fu la cifra del teatro musicale di Bellini.

In Puritani ogni linea vocale sembra vibrare di un respiro amplissimo, come se l’emozione, prima ancora di prendere consistenza teatrale, dovesse distendersi nella pura cantabilità. La vicenda, tratta dal dramma Têtes rondes et Cavaliers di Ancelot e Saintine, mette in scena l’amore contrastato tra Elvira e Arturo sullo sfondo della guerra civile inglese del XVII secolo. Eppure, come spesso accade nel teatro belliniano, la dimensione storica non è che un pretesto: ciò che realmente interessa è l’itinerario interiore dei personaggi, colto nei suoi moti più delicati. Bellini non indugia sul contingente, preferisce far parlare l’anima. La follia di Elvira, per esempio, non è un espediente drammatico, ma un varco: il luogo fragile dove l’identità si sgrana e la melodia si fa confidenza, sospensione, abbandono.

L’opera è frutto della prima (e ultima) collaborazione di Bellini con il conte Carlo Pepoli, nobile prestato con poco successo al teatro e alla letteratura. Bellini — vero uomo di teatro — comprese presto che Pepoli non capiva molto le esigenze del melodramma, ma dovette adeguarsi a un libretto in cui l’azione vacilla. A sanare questa complessiva assenza di azione, v’è tutto l’ingegno creativo del giovane compositore, che in Puritani raggiunge uno dei massimi apici musicali della storia del melodramma, chiedendo tanto all’orchestra quanto agli interpreti.

La partitura si distingue infatti per un equilibrio sorprendente tra introspezione e brillantezza virtuosistica. Se le arie di Arturo richiedono un tenore dalle risorse quasi sovrumane, capace di salire alle regioni più luminose senza perdere morbidezza, il ruolo di Elvira esige una sensibilità capace di trasformare ogni fioritura in un impulso emotivo autentico. Bellini affida alla voce non semplicemente delle «pagine» da eseguire, ma un paesaggio affettivo da scolpire: i lunghi archi melodici, le volute improvvise, le tenerezze improvvisamente incrinate da un’ombra di inquietudine.

Il risultato è un’opera in cui tutto tende alla luce, pur attraversando ombre profonde. L’amore ostacolato, la follia, la guerra civile: elementi che in altri compositori avrebbero suggerito toni cupi, in Bellini diventano materia trasfigurata, quasi rarefatta. Un’opera quasi impossibile da mettere in scena, e per questo una vera rarità malgrado la fama che la circonda: l’allestimento è curato dal giovane regista Daniele Menghini mentre la direzione è affidata al direttore, anche lui giovane, Sieva Borzak. In scena stasera alle 20 e sabato alle 16.

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