L'ANALISI
13 Giugno 2025 - 16:29
CREMONA - Domani alle 11, al Ridotto del teatro Ponchielli, Alberto Mattioli presenta la sua più recente fatica letteraria: Il loggionista impenitente (Garzanti, 2025). Con lui, il sovrintendente del teatro Ponchielli, Andrea Cigni, e il regista d’opera, Davide Livermore, alle prese in questi giorni con Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi. Più di duemila serate passate in teatro: questo è il riassunto di quasi cinquant’anni di vita di un critico. Come ogni melomane, Mattioli nasce in loggione.
Più precisamente, nel loggione del teatro Comunale di Modena. Anche se in loggione, in realtà, c’è stato poco: i critici si siedono in platea, o, tutt’ al più, in palco. Ma l’animo è rimasto lo stesso: quello del tifoso sfegatato, quello di chi ancora, dopo più di duemila recite d’opera, sa commuoversi davanti alla morte di Mimì o alla preghiera di Orfeo, di chi sa stupirsi anche davanti alla duecentesima Traviata o emozionarsi davanti al millesimo Va’ pensiero. Perché, si sa, il melodramma è il genere nazionalpopolare per eccellenza, è l’arte delle folle, il collante culturale del popolo italiano.
E questo Mattioli, che tra le sue pubblicazioni annovera un altro delizioso librino — Gran Teatro Italia — dedicato alle storie dei teatri italiani, lo sa bene. Mattioli non è solo un melomane di lungo corso: è uno spettatore radicale, uno di quelli che vivono l’opera come una religione laica, con le sue messe in scena, i suoi vescovi (i direttori), i suoi santi e, soprattutto, i suoi martiri. E non ammette che il teatro cessi di assolvere a una funzione eminentemente politica e sociale. La stessa del teatro greco di 2500 anni fa. Pietà e terrore, secondo Aristotele: le premesse della catarsi dello spettatore.
Quel valore sociale sopravvive nel perpetuare l’atto del teatro vivo, da Monteverdi a Verdi, da Cavalli e Leoncavallo. Perché non c’è cosa più viva delle travi di legno che scrocchiano mentre uomini e donne del presente ridanno vita a uomini e donne del futuro. Un libro, insomma, da leggere: un compendio di teatro contemporaneo che raccoglie recensioni, stroncature, riflessioni. Il meglio e il peggio del teatro d’opera degli ultimi anni, passando in rassegna i protagonisti di un’epopea evolutiva — quella del teatro — che non smette di accendere gli animi dei melomani. Il teatro d’opera diventa specchio del Paese, metafora di un’Italia che canta anche quando dovrebbe tacere. Il teatro d’opera è costume, è identità, è sentimento.
Per questo il critico deve essere spietato. Conservare il luogo antico senza rimanere radicato al passato: anzi, godendo del miracolo del teatro che si perpetua, si rinnova, e con una lingua di due, tre, quattrocento anni fa, sa parlare delle nostre emozioni, dei nostri drammi sociali e familiari. Parla di noi. E alla fine anche questo fa una recensione: parla di noi, del nostro stare a teatro, del nostro vivere il teatro.
Parla di chi la scrive, certo: del suo gusto, della sua passione, della sua idea di teatro. Ma parla anche e soprattutto di chi la legge, di chi si indigna seduto al bar col giornale tra le mani o di chi condivide pienamente le opinioni del critico, sorseggiando un caffè e annuendo leggermente col capo. Quei cinque minuti di lettura di una recensione sono il lasso di tempo in cui si compie il disegno trinitario che è la matrice del teatro: artista, critico e spettatore si confrontano, si scannano, si lodano e imbrodano, ma, soprattutto, danno continuità e senso all’atto artistico.
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