L'ANALISI
07 Maggio 2025 - 12:18
Matthew Lee nome d’arte di Matteo Orizi
CREMA - Professione pianista. Genere: rock ‘n’ roll. Non si parli di contraddizione. Semmai, di un modo di essere e di fare musica. In poche parole, l’essenza di Matthew Lee (al secolo, il pesarese Matteo Orizi), pianista poliedrico e originale, che venerdì sera, alle 21, si esibirà al Teatro San Domenico.
Quale concerto dobbiamo aspettarci? Tutto piano e atmosfere o con qualche sorpresa?
«In realtà sarà una serata tutta da scoprire per il pubblico. Una narrazione in parole e musica, della mia vita ed esperienza professionale. Alternerò il racconto a parole ai brani che hanno segnato il mio percorso musicale, dai principali brani della tradizione del rock ‘n’ roll e omaggi all’Italia, con miei personali arrangiamenti, fino ai pezzi più originali».
Togliamo allora al pianoforte l’etichetta di strumento-simbolo della sola tradizione classica, quindi?
«Non così drasticamente, perché di fatto quel che propongo è comunque un mio modo di interpretare anche la tradizione, portandola verso la mescolanza di generi. D’altra parte, vengo dagli studi classici al Conservatorio, si parte da lì, è lì che ho imparato la tecnica alla quale ora applico la mia interpretazione. Infatti, poi la mia esuberanza, poco idonea all’ambiente del conservatorio, ha fatto sì che ne venissi radiato. Però da quel cambiamento è nato il mio modo di vivere la musica, quello della contaminazione, delle ispirazioni che diverse esperienze e generi possono dare alla tua arte. Credo che su questo si sia poi formata la mia personalità musicale».
Ma anche in termini di tecnica pianistica, lei è famoso per le performance inusuali, da ‘funambolo’ del pianoforte. Altro modo per non etichettarla?
«Questo è curioso, perché in verità è stata una strategia, all’inizio della mia carriera, per pura esigenza di farmi strada, di farmi conoscere. Quando ancora non hai un nome e una storia nella musica e fai rock ‘n’ roll, soprattutto in America, se suoni e basta possono considerarti, ma anche no. Creare curiosità intorno al numero, come suonare il piano anche di schiena, coi piedi, o con virtuosismi è servito molto ad attrarre. Dopo vent’anni di mestiere, invece, è solo diventato una mia cifra, una caratteristica, un modo cinematografico e originale di offrire una serata di musica al pubblico, di lasciare una tua firma sul ricordo personale di chi lascerà il teatro dopo il concerto. Un’idea che mi piace molto di rapporto col pubblico».
Si dice che tra Stati Uniti e Italia ci sia diversità nel vivere la musica. Davvero è così marcata la differenza?
«Non sono tra quelli che la pensano così. Anni fa ti avrei forse detto di sì, ma ora che lavoro molto sia in Italia, sia fuori, devo dire che anche nel nostro Paese c’è grande sensibilità verso questo genere, anche nei grandi teatri. Lo stesso per gli Usa, in città come New York nei suoi grandi teatri. Forse, se ci spostiamo sul discorso Country, allora certo negli States ci sono un’identità fortissima e un interesse che, ancora, in Italia non si è sviluppato. Ma per il resto, le differenze sono davvero minime nei grandi contesti. L’Italia è piena di musicisti bravissimi, gli Usa hanno magari una tradizione più lunga rispetto ad alcuni generi, ma non ci sono diversità abissali ormai».
Da quali generi le piace farsi ispirare e contaminare e quali Paesi le piacerebbe ancora esplorare con la sua musica?
«Sono un curioso e, come tale, aperto a tante esperienze musicali. Non sperimento negli spettacoli, ma in studio e nei dischi moltissimo: nel prossimo disco, ad esempio, sto esplorando l’elettronica ma anche altri generi. Quanto ai Paesi che conto presto di raggiungere con la mia musica, c’è sicuramente l’Australia, mentre alcuni li raggiungerò con l’attuale tour: Qatar, Estonia, Lituania, Finlandia. Alcuni di questi, mai visti, quindi sono davvero emozionato. Credo che, indipendentemente dall’essere conosciuto o meno in un Paese diverso dal proprio, avendo una storia da raccontare onesta, per quello che è, senza invenzioni o forzature, paghi sempre».
E del resto, Matthew Lee di sfizi musicali se ne è già tolti parecchi. Tanti e prestigiosi: ha suonato a numerosi festival, insieme a mostri sacri come Tom Jones e Van Morrison e al fianco dei principali nomi del blues americano; sette album all’attivo e molti tour, da solo o con altri musicisti, come quello che già una volta lo ha portato a Crema con la Big Band nel 2011. Venerdì a Crema, sarà il momento di ascoltarlo da solo, col racconto della sua vita in musica.
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