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Diritto di critica: «Adesso i voti li diamo noi»

Premiati gli studenti vincitori dell’iniziativa del Ponchielli e del giornale La Provincia. Lodato il grande impegno

La Provincia Redazione

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09 Ottobre 2024 - 09:44

Diritto di critica: «Adesso i voti li diamo noi»

CREMONA -  «Ci vuole coraggio a esprimere pubblicamente il proprio giudizio. E voi ragazzi lo avete fatto in maniera competente e con spirito critico», così il direttore del giornale «La Provincia», Paolo Gualandris ha voluto sottolineare l’impegno degli studenti delle scuole superiori cremonesi che ieri nel Ridotto del Ponchielli sono stati premiati a chiusura della dodicesima edizione di Diritto di Critica, il progetto di scrittura giornalistica, promosso da Fondazione Teatro Amilcare Ponchielli e dal quotidiano ‘La Provincia’. Il sovrintendente Andrea Cigni, in un messaggio video, ha sottolineato l’impegno dei ragazzi e l’importanza del loro sguardo sugli spettacoli, il sindaco Andrea Virgilio ha parlato dell’importanza che le istituzioni culturali si aprano alla città e siano spazio di dialogo. A premiare i ragazzi sono stati anche gli assessori alla cultura e all’istruzione Rodolfo Bona e Roberta Mozzi. L'iniziativa può contare sul patrocinio dell'Associazione Nazionale Critici Teatrali, presieduta da Giulio Baffi, un segno di attenzione nei confronti delle giovani leve della critica teatrale. 

A leggere le recensioni vincitrici è stato l’attore Alberto Branca, i pezzi premiati sono stati frutto del lavoro della giuria composta da Nicola Arrigoni, Barbara Caffi del giornale, Paola Coelli, Lorenzo del Pecchia, Laura Seroni, Barbara Sozzi del teatro Ponchielli.

Sono risultati vincitori: Ludovica Premi, Maram Dieye, Chiara Moretti, Ludovico Emanuele Russo e Jacopo Gandaglia, il più votato sul sito www.laprovinciacr.it.

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LUDOVICA PREMI: CECHOV, COMICO E DOLENTE 

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È andato in scena presso il teatro Ponchielli Zio Vanja, riadattamento dell’opera scritta nel 1896 da Anton Čechov. La regia di Leonardo Lidi rimane fedele al testo originale, anche se l’ambientazione si distacca completamente dalla tradizionale ottocentesca dell’autore russo, per immergersi nella quotidianità di una famiglia scapestrata degli anni Sessanta del Novecento. Questa follia si riflette su costumi, acconciature e atteggiamenti: i personaggi mantengono il proprio ruolo all’interno dell’opera, ma la loro essenza viene completamente stravolta. A partire dalla figura del dottor Astrov (interpretato da Mario Pirrello), originariamente visto come l’archetipo colto e di sicuro fascino, che nella rivisitazione dell’opera assume le sembianze di un reietto dedito all’alcool e che lascia intravvedere lo sfacelo del suo tempo. Allo stesso modo, la figura della balia (Francesca Mazza) sveste i panni della nonna per assumere, invece, quelli di una trasandata casalinga, solita girare per casa con bigodini in testa e mozzicone di sigaretta pendente dalle labbra. Ognuno di loro è costretto a convivere con le proprie frustrazioni, e sembra essere in attesa di fuggire da qualche parte, senza mai riuscire nel tentativo di uscire definitivamente dal contesto, in cui si trova, un po’ come il piccolo Scottish Terrier che, dall’inizio sino alla fine della rappresentazione, si muove indifferente alla scena, allontanandosene, per poi ritornarvi continuamente. 

Gli attori si muovono con maestria su un palcoscenico minimalista, costituito esclusivamente da una parete in legno, con una panca antistante che diviene il ruolo di ritrovo e il fulcro dell’azione. Altri elementi costitutivi della scenografia sono proiezioni di coni di luce che vanno a restringere la scena, concentrandola sui singoli personaggi. Le carte geografiche che Astrov ha realizzato con assoluta dedizione sono trasmutate in disegni di bambino, ove il colore è tracciato con campiture sbadate accentuando l’ironia del tutto. Gli sprazzi musicali sono alquanto azzeccati e di sicuro effetto con le loro note improntate al blues. La solennità dei dialoghi del testo originale viene scalzata dall’atteggiamento caricaturale cui è improntata la recitazione, con l’effetto di suscitare volontaria ilarità che si traduce nel lungo applauso liberatorio finale. (1ª liceo scientifico Aselli)

MARAM DIEYE: TRAGEDIA TUTTA DA RIDERE 

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La storia è rinomata: lo scontro sanguinario tra Eteocle e Polinice, prole di Edipo, per il dominio su Tebe. Nessun testamento o lascito preciso, ma un regno di cui il controllo è poi ripartito equamente tra i due fratelli, regnanti, dunque, ognuno ad anni alterni; ciò nondimeno, l’orgoglio e la sete di potere prevaricano, portando inevitabilmente ad una guerra: su ognuna delle sette porte di Tebe si scontrano altrettanti Argivi e altrettanti Tebani. È una lotta efferata e fratricida, drammatica, sanguinaria, commovente. Eppure, al Ponchielli mercoledì sera nessuno si è commosso, cinquanta minuti di risate, di ilarità, fomentate dai Sacchi di Sabbia, versatile e premiata équipe toscana che, quasi come mischiandosi nel pubblico, seduti su quattro sedie, si rivolgono direttamente ad esso; non c’è nessuna platea, loggione, scalini, ma un semplice e sguarnito palco dove apparentemente a prendere le veci degli attori è il pubblico, quasi a creare un ambiente di confidenza e familiarità tra gli spettatori e i personaggi. Tra questi funge come emblema della comicità e bizzarria il fragoroso coro delle donne tebane, interpretate da Gabriele Carli ed Enzo Iliano, due vecchie beghine linguacciute, frignanti e strette nel loro scialle, sovente zittite e rimproverate dalla Corifea, interpretata da Giulia Gallo; è testimone del contrasto non solo tra dramma e umorismo, ma anche tra arcaicità ed attualità, ribellandosi spesso (appellandosi al cosiddetto ‘politically correct’) al ruolo stereotipato della donna lagnante ed indifesa, rivolgendosi dunque alle due signore, persistenti nella loro apparente inettitudine ed indifferenza nell’oscillare tra gli ordini della Corifea e di Eschilo (qui Giovanni Guerrieri), austero e in netta contrapposizione con l’altra. L’accostamento tra i toni toscani e il dialetto napoletano di Iliano appare esilarante, analogamente i fraintendimenti verbali, gli scherni e le note comiche, interrotte però dal trionfale snodo finale: i guerrieri ora non sono più pupazzetti mimati da Eschilo e la Corifea, l’opera ora non è più scandita in sei schematici duelli e duellanti (che vede come vittoriosi sempre gli Argivi), ma si apre nell’ultima solenne contesa tra Eteocle e Polinice, che vede due gemelli sacrificatisi per una città che sentivano entrambi legittimamente propria, fermi l’uno di fronte all’altro, seri, austeri, due eroi e due scudi, accompagnati dalle marcate frasi della Gallo che con una sonora e ritmata voce delinea il culmine di un dramma greco arcaico, che si smembra da tutto il clima comico che ricorre nell’opera. (2ª liceo scientifico Aselli)

CHIARA MORETTI: IL SACRO INCONTRA LA DANZA

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Immerso dall’inizio in una dimensione atemporale con la mente ottenebrata dal contrasto necessario tra la solennità scenografica del luogo e la geometria dell’incedere ragionato dei danzatori, lo spettatore de ‘La nuova abitudine’, messo in scena martedì 7 maggio, è confinato a contemplare la finzione teatrale, senza esserne parte integrante. Questa adorazione non partecipativa, ma distante, è un’eco della commistione tra la tradizione greca del sedicesimo secolo e quella rurale russa, le terre in cui sono nati i canti ortodossi Znamenny, eseguiti da un ensemble maschile del Coro in Sacris che scandisce il susseguirsi delle scene di carattere meditativo, più che dialettico. L’esibizione vuole essere un’indagine sul rapporto tra il ritmo cadenzato ed impersonale della musica e la libertà creativa degli archetipi di Claudia Castellucci. I danzatori, strappati alle catene delle convenzioni tecnico-compositive, trovano nell’antico carceriere, la musica, il mezzo con cui plasmare, delicati ed imprevedibili, il fluire del tempo. Mutevole è il rapporto con il pubblico nell’allontanarsi degli artisti, quasi ispirati da una vocazione ascendente, dalla navata al presbiterio. La compagnia Mòra, curioso nome che afferisce alla più breve pausa nella notazione agostiniana, delinea un’evoluzione dalla predilezione della sincronia del movimento al graduale emergere della figura individuale.

Un carattere marcatamente antinaturalistico connota i costumi, abiti con un’eco cerimoniale, cuciti per il ballo. La designazione da parte del teatro Ponchielli di un luogo di culto tanto notevole quale la chiesa di San Michele Vetere è azzeccata, sia per le affinità tematiche, sia per la solennità quasi mitica che pervade, mediante la luce tenuissima, l’intera rappresentazione. Sebbene la modestia dell’insieme rispetto all’appariscente liturgia bizantino-slava giunga piuttosto inaspettata a chi si affaccia a questo territorio musicale poco battuto, lo spettacolo si rivela una scoperta progressiva, immagine della reazione del pubblico all’agognato sperimentalismo della Societas. Priva del primato della parola che si diffonde unicamente dal canto inintellegibile, la rappresentazione mette in rilievo la funzione unificatrice dell’arte che rende il rivolgere un encomio alla Russia, non un atto audace, ma la prova della genuina volontà di espressione. Totus mundus agit histrionem(4ª liceo scientifico Aselli)

LUDOVICO EMANUELE RUSSO: MNOZIL BRASS, CHE RITMO! 

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Suono che brilla, musica che corre, si nasconde, riappare. Un gioco di abilità e virtuosismo, un concerto dal carattere unico ha visto protagonista, sul palco del Ponchielli, la band austriaca Mnozil Brass.

Il teatro, gremito, è stato invaso dall’energia contagiosa e dall’umorismo schietto dei sette musicisti che hanno trasformato ogni brano in un dialogo oltre la quarta parete. I Mnozil Brass hanno regalato al pubblico un fantasioso corteo musicale e i presenti hanno potuto vedere sfilare furbeschi motivi della tradizione popolare accanto a compassati brani classici, sognanti interventi jazz, mano nella mano con stravaganti brani rock. Gli strumenti hanno roteato, volteggiato, quasi privi di peso; le loro voci hanno fluttuato in platea, scalato gli ordini dei palchi, raggiunto il loggione e nel tornare indietro hanno trascinato con loro l’euforia degli ascoltatori che hanno saputo apprezzare gli ottimi arrangiamenti, la precisione del suono e la qualità del timbro. Una performance piena di carattere ha reso viva ‘Englishman in New York’ di Sting; immensa l’esecuzione di Music di John Miles: armonie impeccabili e precisione millimetrica hanno esaltato la bellezza di questo inno alla musica, protagonista indiscussa della serata. I Mnozil Brass hanno davvero stupito con ‘Blackbird’ dei Beatles, eseguita in stile barbershop quartet: abilità nel reinterpretare i classici in modi innovativi e sorprendenti. Le armonie vocali impeccabili si sono fuse con gli arrangiamenti degli ottoni in un momento di pura magia musicale. L’energia è esplosa con ‘Highway to Hell’ e ‘Back in Black’ degli AC/DC, i Mnozil Brass hanno dimostrato di saper dominare anche il rock più duro con il loro inconfondibile stile. L’audacia e la potenza dell’esecuzione hanno conferito all’evento il carattere inconfondibile di un concerto rock. La presenza dei Mnozil Brass al Ponchielli di Cremona non può essere racchiusa nell’espressione ‘concerto’; la loro esibizione è un’esperienza che coinvolge totalmente lo spettatore: è il trionfo della musica perché rimane nel pubblico il desideroso di restare ancora lì, in teatro, ad ascoltare, ad assaporare, a vivere di emozioni, a volte, accantonate. Con straordinaria maestria e irresistibile carisma, i Mnozil Brass confermano il loro status di fenomeno musicale. Una scelta vincente nel cartellone della Stagione Musica ‘Ad Alto Volume’ del Ponchielli. (5ª liceo musicale Stradivari)

JACOPO GANDAGLIA: SE MARIA STUARDA È POP

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Al teatro Ponchielli cala il sipario sulla produzione di Maria Stuarda del regista torinese Davide Livermore: una lunga tournée ha avuto degna conclusione nel doppio appuntamento cremonese. Il dramma di Schiller viene riproposto in chiave pop/rock, senza però stravolgimenti della sceneggiatura. Una scena piuttosto semplice è sfondo per un inizio tanto destabilizzante quanto magistralmente ben riuscito. Una cantilena dai toni drammatici decreta che l’attrice sulla quale cadrà una piuma bianca dovrà interpretare la condannata Maria Stuart. L’energica Laura Marinoni e la veterana Elisabetta Pozzi si alternano così fra l’apparentemente glaciale Elisabetta I e sua cugina, prigioniera per presunti crimini contro la Corona. Al Ponchielli i ruoli si scambiano nelle due serate, ma è alla Pozzi che viene affidato quest’ultimo personaggio nella rappresentazione finale. Sublime è l’interpretazione delle protagoniste: ogni quadro delinea minuziosamente la complessa psicologia delle regine e definisce un intrigo politico dai risvolti fatali. Tutto converge nell’incontro fra Elisabetta e Maria: il climax ascendente di provocazioni della Marinoni è contrapposto alla dignità della regina della Pozzi, in grado però di restituire con rinnovato vigore l’attacco verso la cugina bastarda. Da sottolineare una rimarchevole interpretazione di Linda Gennari, che conferisce a Mortimer il giusto equilibrio fra eroicità e morbosità nei confronti di Maria. Emblematico è il quadro del suo suicidio: il gioco di luci, retto quasi unicamente da un accendino nelle sue mani, diviene coprotagonista della drammaticità della scena. Fra tradizione e novità, i costumi firmati da Dolce&Gabbana, seppur non classici, richiamano coerentemente la regalità delle sovrane; Giua e la sua chitarra elettrica accompagnano con musica pop/rock i momenti di maggior tensione e i brevi cambi di quadro. Tuttavia è questo il maggior punto interrogativo sulla rappresentazione: il costante sottofondo musicale risulta monotono e non sufficienti sono gli improvvisi ritmi accelerati, che allarmano il pubblico invece di coinvolgerlo. Oltre a qualche scelta registica avulsa da tutto, quale la presenza di poliziotti nella prima scena o il cambio di registro finale, che propone una vivace danza sulle note di Sweet Dreams, questo è l’unico neo di una rappresentazione attorialmente impeccabile. (3ª liceo scientifico Aselli)

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