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TEATRO IN LUTTO

Glauco Mauri, attore fino all'ultimo

Era in scena con De Profundis a Roma. Per anni presenza fissa delle stagioni del Ponchielli. Il ricordo di Cantarelli

Nicola Arrigoni

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narrigoni@laprovinciacr.it

30 Settembre 2024 - 08:29

Glauco Mauri, attore fino all'ultimo

CREMONA - Avere Glauco Mauri in cartellone voleva dire avere un tutto esaurito assicurato. Al Ponchielli Mauri è stato Prospero nella Tempesta nel 1997, Enrico IV di Pirandello nel 1999, Raskolnikov di Delitto e castigo di Dostoevskij nel 2006, Faust di Goethe nel 2008: solo per citare alcuni degli spettacoli che hanno visto l’attore protagonista sulla scena cremonese, esempio di quel teatro di rappresentazione che sapeva ricondurre alla semantica della tradizione ogni allestimento con eleganza e raffinatezza. Glauco Mauri, classe 1930, ha calcato fino all’ultimo le assi del palcoscenico, il teatro era la sua vita, la vita per lui era il teatro.

L’attore si è spento ieri alle soglie dei 94 anni che avrebbe compiuto domani: «Amo l’arte per la vita e non mi interessa molto l’arte per l’arte, la cosa bella è stata che il teatro e la vita si sono incontrati, sono diventati una cosa sola, io non ho portato il teatro nella mia vita, ho portato la mia vita nel teatro», aveva dichiarato recentemente. L’ultimo anno non era stato facile per lui, dopo la morte improvvisa di Roberto Sturno con cui faceva compagnia: «Roberto ha recitato fino all’ultimo, fino alla settimana prima di morire, sempre disponibile e preciso — ricorda Dario Cantarelli che l’anno passato è stato il fool nel Lear di Shakespeare —. Ora se ne va anche Glauco. Questa tristissima notizia mi dà ragione della mia proposizione: dopo il Lear ho deciso di lasciare le scene. Ritornare sul palco con la scomparsa di Glauco mi sarebbe difficile, se non impossibile. Ci siamo conosciuti agli inizi degli anni Ottanta quando con lui recitai ne Il signor Puntila e il suo servo Matti di Brecht».

E mentre parla Cantarelli non nasconde un poco di emozione: «Arrivava in teatro silenziosamente, ma appena entrava in scena si trasformava, non dimostrava i suoi novant’anni. Si commuoveva. Sapere che se ne è andato mi fa tristezza, Glauco era uno di quegli attori che sembravano fatti di una materia indistruttibile che il tempo non tocca. Invece oggi mi tocca fare i conti con la sua assenza». Portando in scena Edipo — in una versione che univa Edipo Re ed Edipo a Colono — Mauri non faticò a confessare: «Più passano gli anni più mi capita di commuovermi in scena. Di far mie le parole dei personaggi e di stupirmene ogni volta che le pronuncio».

Uomo di teatro tutto d’un pezzo, con alle spalle oltre 70 di palcoscenico. Aveva iniziato recitando nella filodrammatica della sua parrocchia a Pesaro, a 15 anni protagonista de La notte del vagabondo. Tre anni dopo si presentò a Roma all’Accademia d’Arte Drammatica diretta da Silvio D’Amico, tra i suoi insegnanti Orazio Costa, Wanda Capodaglio, Sergio Tofano. Iniziò allora, debuttando nel 1953 nel Macbeth diretto da Costa, una carriera che è stata «un intreccio di occasioni e incontri». Così fu ne La dodicesima Notte di Shakespeare con regia di Renato Castellani, e Smerdjakov, ruolo amatissimo e suo successo, ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij con Memo Benassi, Lilla Brignone, Gianni Santuccio ed Enrico Maria Salerno, diretto da Andrè Barsaq. Quindi le stagioni con la gloriosa Compagnia dei Quattro, assieme a Valeria Moriconi con Franco Enriquez, Emanuele Luzzati e poi Mario Scaccia.

Glauco Mauri e Dario Cantarelli nel Lear di William Shakespeare


Da quando uscì dall’Accademia, ha recitato per 70 anni senza perdere una stagione, come per necessità, o meglio con naturalezza del suo vivere, se aveva programmato di aprire la stagione del Vascello a Roma giovedì scorso col De profundis di Oscar Wilde, annullato per l’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute. «Io sono un difensore del teatro come intrattenimento, ma questo non vuol dire impedire di pensare. È qui l’equivoco. All’origine c’è l’idea del teatro come atto etico e non solo estetico. Oggi più che mai c’è bisogno di interrogarsi sui grandi temi dell’uomo, di cercare un senso e rischiare anche di uscire da teatro con qualche dubbio in più sul modo di concepire la vita». Così si era definito alla vigilia della messinscena di Delitto e castigo di Dostoevskij al Ponchielli.


Il pubblico riconosceva questa sua serietà, la sua estetica di metteur en scène che aveva come obiettivo raccontare una storia, raccontare l’uomo, condividendo questo racconto con altri uomini: gli spettatori, in una continua tensione di amore per la poesia, la parola, la letteratura mediati dallo spazio magico e favoloso del teatro. Ed era uno spettacolo vederlo prendere gli applausi, lentamente procedere verso la ribalta e godersi l’abbraccio del pubblico e chiamando intorno a sé la sua compagnia perché il teatro vive e trionfa se si fa insieme. Se ne va grande della scena italiana, il sipario è calato sulla chioma bianca di Glauco Mauri, Prospero infaticabile della scena.

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