L'ANALISI
23 Giugno 2024 - 05:15
'Cristo nella tempesta sul mare di Galilea', olio su tela, Rembrandt van Rijn, 1633
In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Mc 4,35-41
È capitato un po’ a tutti di prendere Gesù con sé, così come ce lo hanno presentato, proposto, si spera non imposto. Appunto così com’è, mentre la vita procede nel suo viaggio che è giustamente paragonabile ad un attraversamento in barca. Forse non si tratterà sempre e per tutti di una navigazione in mare aperto, esposta alle fortune degli oceani… forse per la nostra vita basta saper reggere la metafora del lago che anche gli apostoli ingaggiano nel vangelo di Marco. Eppure ogni lago, magari anche il nostro, è esposto ad imprevisti mutamenti e a pericoli che si presentano in forma repentina. L’elenco degli incidenti di percorso o delle avverse condizioni meteo sarebbe infinito.
Dentro queste cose della vita, dentro queste dimensioni imprevedibili e non sempre gestibili chi ha un’esperienza di fede imbarca anche Gesù: gli hanno detto che è esistito, che ha compiuto gesti degni di nota, che addirittura la fede delle chiese lo ha identificato come Figlio di Dio. Ma forse è rimasto lì, in un cassetto catechistico, più dottrinale che esperienziale, più morto che vivo; certo un personaggio prezioso per la storia, ma decisamente oscurato da un Socrate qualsiasi o da un Mandela a noi più vicino nel tempo. Forse perché su di lui pesano alcuni codici religiosi e morali che sembra sia necessario accettare in toto: una sorta di aut aut, un pacchetto completo che per qualcuno, magari per molti, diviene insostenibile.
L’esito dell’operazione è la nebbia della storia minore, in cui sono relegati coloro che tutto sommato possiamo rimuovere dall’ispirazione profonda della nostra esistenza. E pazienza se restano chiese, opere d’arte, istituzioni di dubbia potenza: tutti relitti del passato, da cui a volte non riusciamo a ricavare nemmeno cultura. Lui, Gesù, dorme, proprio come ha dormito sull’altra barca nel lago di Genesaret. E ai credenti, ma non solo a loro, resta spesso la stessa emozione dei discepoli: la paura degli eventi, il senso di solitudine e di abbandono, e forse quel rimprovero che tutti, anche i più atei, levano alla vita, se non a qualche essere supremo, quando le cose vanno male o malissimo: ma non ti importa? Nella storia anche recente in molti hanno concluso che la fede, o meglio la religione con i suoi apparati di tutela e di definizione della vita, altro non sarebbe che la consolazione di un bisogno ancestrale di vita che tutti ci portiamo dentro.
E anche se non si segue per filo e per segno l’onda del filosofo tedesco Nietzsche che predicava la totale disillusione dell’uomo e la sua solitudine radicale, come se fosse sospeso su di un filo teso su di un burrone, l’alternativa sembra proprio questa: accontentiamoci del piano terra, proviamo a fare del nostro meglio senza immaginare un altro illusorio. È a questo punto che si innesta la voce della fede: non prima, perché non si confonda con la magia di qualcuno che trucca le carte della vita solo per i suoi soci; né dopo, perché tutto non sia spostato su di una promessa di paradiso di là da venire (era infondo questa la grande critica di Marx, il celebre oppio dei popoli).
Solo adesso, dentro i sommovimenti del lago che è la vita, su questa barca, con questo equipaggio più o meno selezionato, più o meno scelto e competente, avere e non avere fede può costituire un’alternativa davvero umana. Certo i Vangeli propongono diversi episodi che sono stati definiti nella storia via via come miracoli, prodigi, segni… ma la fede in Gesù non si può certo ridurre a questi momenti straordinari, accaduti peraltro a un numero trascurabile di uomini e donne: fede è forma della vita, attitudine alla speranza, fiducia in un amore più grande che può essere eletto a fondamento del nostro esistere. Per questo Gesù nel vangelo proposto oggi alle comunità cristiane contesta la paura, ovvero l’atteggiamento che blocca e irrigidisce, paralizza corpi e intelligenze.
Un’emozione che non produciamo con razionalità, lo avvertiamo nella pancia, nelle gambe, non certo a livello cerebrale. Ed è la paura che l’esercizio di una fede non isterica, non paranoide può e deve contrastare. Perché nella vita ci può essere spazio anche per l’affidamento. Prima di essere uccisa ad Auschwitz, Edith Stein, passata alla storia come Santa Benedetta della Croce, scrisse dell’empatia, della capacità umana di cogliere l’altro nel proprio orizzonte e dargli valore, ospitarlo, legarsi in comunione. Sino a concludere che il più grande empatico è stato proprio Gesù: non in qualità di prestigiatore, ma in qualità di amante.
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