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PENSIERI LIBERI

Così il nome della Patria brucia sulle nostre labbra

Verso il 2 giugno: in Italia è silenzioso, quasi poetico nel suo rimanere taciturno. Qui non c’è bisogno di baccano: giusto le note dell’inno che danzano in sottofondo

Matteo Aschedamini (19 anni Studente di Lingue  e Lettere Straniere a Bergamo)

28 Maggio 2024 - 05:15

Così il nome della Patria brucia sulle nostre labbra

pensieri

Giunge ogni anno di soppiatto, sul crinale della linea del giro di boa primaverile, in coda alla festa della Liberazione e alla festa dei lavoratori. E giunge in giugno non a caso, quando si schiarisce il cielo e la luce del sole insiste a soggiornare sulla terra fino ad ora di cena e oltre. Il 2 di giugno in Italia è silenzioso, quasi poetico nel suo rimanere taciturno. Passa in punta di piedi, tanto che quasi non ce ne accorgiamo neppure, noi italiani, che ancora una volta questo miracolo di paese, sorto dalla passione dello stare insieme, come Renzo e Lucia del Manzoni, ha compiuto un altro anno di vita.

In Russia sfilano cortei eterni e strombazzanti, colori sgargianti che risucchiano secoli di storia, di onore e orgoglio in nome della patria; marciano impetuose le figure pesanti dei carri armati, l’aria grava del peso ineludibile dell’impero. Così anche in America, oltre la sottile linea d’acqua che separa le due potenze, dove si alzano caotiche danze di botti d’artificio sulla testa dei grattacieli di New York e degli americani sdraiati a bersi il sole ogni bollente 4 di luglio.

In Italia, invece, nulla di simile. Forse perché in parte come un popolo festeggia la propria giornata celebrativa nazionale rispecchia anche la filosofia di quel popolo, la natura intrinseca delle sue usanze e dei suoi costumi.

Il 2 giugno in Italia si recitano le solite forme di buona creanza, i politici twittano un rigo o due di celebrazione e qualcuno cava dalla cantina una bandiera impolverata per darle la sua mezz’ora di ossigeno fresco.

La mattina degli studenti accoglie di buon grado un sonno più lungo, anche fino al mezzogiorno. Il Presidente si concede qualche frase di patriottismo. Impossibile però vendere ad un italiano anche solo un soldo di nazionalismo: non oggi, almeno; oggi il nostro olfatto funziona fin troppo bene. Forse abbiamo fatto indigestione durante il famoso ventennio, forse ci è bastato vedere il dittatore deposto penzolare testa in giù, o la carcassa dell’auto in cui giaceva Aldo Moro, per mandarci lo stomaco in congestione da patriottismo. O forse siamo nati così: più attenti ai campanilismi che non alle grandi lotte, più attenti a cosa ci divide, diffidando del vicino di casa per forza d’abitudine.

Dante la chiamò ostello di dolore. Ostello è un termine curioso, molto espressivo di per sé: un ostello non è una casa, in un ostello non soggiornano le famiglie. E nel Trecento era così. Lo è stato per cinque secoli ancora: una nave senza nocchiere in gran tempesta. Poi, di colpo, come per magia, l’Italia si fa. Il matrimonio che non ha da farsi culmina nelle nozze dei mille che montano l’Italia dalle Alpi all’Appenino e marciano fagogitando contadini entusiasti, giovani italiani senza Italia. Ed è emersa ancora nella notte dell’occupazione nazista, quando sotto la teca di una pistola puntata alla tempia sono balzate dai loro rifugi le forze della Resistenza, il nome della patria che brucia sulle labbra.

Infine, ci siamo arresi al borghesismo, il che non è un male per forza, come spesso si dice. I soldi non sono d’altra parte né il diavolo né l’acquasanta, ma da quando in qua ad un italiano è fregato più che del portafoglio, vuoto semivuoto o colmo da strapazzo? Questa è stata la sua misura del patriottismo, come era per Borges l’amore quella del tempo, per l’italiano l’economia, chiamiamolo anche benessere, è la misura dell’operato politico, a seconda delle proporzioni acquistate dal portafoglio, buono, cattivo, o pessimo.

Allora come pretendere che si affollino le strade, che si conceda un minuto di silenzio prima del pasto o che si faccia posto ad un pensiero per la cara vecchia Italia almeno prima della partita della domenica? Ma non in Italia.

Qui vengono prima l’Inter, il Milan o la Juve. Voi direte: questo è un male! E, invece, no. Almeno, io non lo credo. Credo sia naturale e che non sia sbagliato, per nulla. Perché abbiamo imparato a fidarci prima di noi stessi che degli altri, abbiamo saputo costruire le basi di un paese che si nutre di polemica eppure rientra ogni anno tra i migliori del mondo con le sue surclassanti eccellenze, con la sua manodopera di qualità infinita e con la sua produzione sterminata di cervelli. Anche quelli in fuga. Perchè, diavolo!, seppure un cervello fugge l’Italia lo richiamerà sempre a casa, siamo più patrioti lontano da casa. Meravigliosamente ambiguo, ma dolorosamente vero. Noi funzioniamo così: sputiamo nel piatto in cui mangiamo per poi ripartire all’attacco ancora più famelici e insaziabili di cuore italiano, di cibo italiano, di cose che spruzzino italianità. E siamo indubbiamente stufi delle guerre, dei conflitti, delle crisi umanitarie. Dopo quasi un millennio e mezzo di piccoli regni, signorie e occupazioni varie, forse ci siamo fatti venire a noia il sangue. Lo abbiamo giustamente imprigionato nel rosso del tricolore, con la speranza che non lo si debba più versare, neppure una goccia. Lo Stivale ha visto di tutto, si è anche annoiato.

L’Italia quindi si celebra così, timidamente, come fosse ancora sorpresa dall’impresa di essere riuscita ad esistere. Al massimo si può concedere una nube di verde, bianco e rosso quando infilzano il cielo le Frecce Tricolori. Poi solo pace, serenità, una passeggiata in corso Mazzini e una sosta sotto la statua di Garibaldi. L’idea dell’impero non troverebbe spazio nel cuore dell’italiano: i ventricoli sono già saturi della nostalgia per quello romano e dall’aorta pompa fortissimo il desiderio di tranquillità. Un carro armato, converrete, sarebbe di cattivo gusto, e persino di cattivo auspicio. Ci vuole grande maturità per arrivare all’astensione dal conflitto, ci vuole un Golgota inesauribile di guerre, per arrivare ad odiarle. Quando al telegiornale passano in onda l’ennesimo palloncino di fumo che si alza dalla striscia martoriata di Gaza o dal ventre aperto della steppa ucraina l’italiano sospira, un po’ soffre dentro. Preferirebbe che dessero servizi sulle pietanze della Parodi, sul vincitore di Masterchef, su chi parteciperà al prossimo festival di Sanremo. Churchill diceva che gli italiani combattono le guerre come partite di calcio e le partite di calcio come guerre. Ci aveva preso.

Ma per noi italiani questo ha un senso tutto suo. Meglio soffrire per l’ennesimo derby perso che per una linea del fronte arata dal nemico, con una pioggia di piombo che soffoca vite umane. Meglio che sia la palla a morire, se proprio deve, anche oltre le spalle dell’estremo difensore. Per noi la festa della repubblica è un miracolo silenzioso, la venuta al mondo di un porto sicuro. Il Belpaese che si vuole affrancare dalla crudeltà del mondo e che vuole andare sotto le coperte godendosi l’ennesimo tramonto mozzafiato sulle rive del mediterraneo. Gioiamo di stare insieme, anche così diversi come siamo, anche tra chi vuole ritirare le pendici dell’Italia sino alle sponde meridionali del Po. Perché in fondo siamo italiani. Ed è un bene che sia così. Finché resteremo italiani c’è speranza che vada tutto bene.

Il 2 di giugno è una giornata meravigliosa perché abbiamo la possibilità di dimenticarcene, sapendo che l’Italia per esistere non ha bisogno di fare molto baccano: giusto le note dell’inno di Mameli che danzano in sottofondo, il petto che palpita quando le sillabe compongono la parola fratelli e il fiato che si libera sgusciando come da una stretta tra due fosse atlantiche all’Italia chiamò! Il 2 di giugno possiamo mettere da parte le remore sui tombini a livello che a quanto pare esistono solo in Svizzera e sulla pizza con l’ananas. L’Italia c’è, è una repubblica perché lo abbiamo voluto noi. E questo, in fondo, basta e avanza.

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