L'ANALISI
IL COMMENTO AL VANGELO
24 Marzo 2024 - 05:20
Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”». Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!».
(Marco 11,1-10)
Siamo giunti alla settimana delle settimane. Non è quella delle ferie che tutti sperano di vivere nella pace né tantomeno quella di negoziati di Pace destinati al successo. È la settimana che ritualizza il destino di un uomo, chiamato “uomo dei dolori”, “figlio dell’uomo”, “figlio di Dio”… è la sua settimana che le comunità cristiane hanno preparato nel respiro di una Quaresima giocata sull’appello che proviene dalla grammatica del suo mistero e chiede, con forza, di essere condivisa.
È la settimana che si apre con il gesto festoso delle Palme: perché la gente comune sa distinguere, più dei potenti, chi compie il bene per gli ultimi e lo sa onorare, a suo modo, con il linguaggio dell’applauso che viene dal cuore.
Chi ha seguito il percorso quaresimale lo sa: ci sono state fornite tre potentissime chiavi di lettura per decifrare quanto sta per essere rievocato, centrate sul paradosso di un amore più grande che non si lascia contenere nemmeno nelle categorie del religioso. Giovanni ha attribuito a Gesù la qualifica di “nuovo tempio”: lui è per i Vangeli il vero e definitivo spazio in cui sacro e profano si incontrano e non sono più reciprocamente estranei, perché è nella carne di Cristo che si rivela la presenza del divino. Ma ci ha anche detto che lui sarebbe stato l’unico segno in cui sensatamente cercare una traccia dell’amore più grande, oltre i miracoli che accontentano alcuni e inevitabilmente deludono altri. Infine, ci ha ricordato, giusto domenica scorsa, che lui è come un chicco di grano che manifesta la sua fecondità solo nella consegna di sé, nella morte del seme.
È con queste tre potenti decodifiche che ora siamo sotto le mura di cinta di Gerusalemme e possiamo varcare la porta della città santa senta sentirci troppo stranieri. Non siamo immersi in una lingua incomprensibile, non siamo costretti ad un silenzio assordante o ad un mutismo imbarazzato. Possiamo almeno in parte capire che cosa accadrà dentro quelle mura. Poi potremo non condividere, non scegliere di imitarne la logica… ma potremo capire qualcosa del mistero di quell’uomo. Perché dolore e sacrificio, condivisione e addirittura amore non saranno più solo dimensioni nostre, tanto nostre da poterle ritrovare altrove solo con fatica; ma saranno, perché lo sono state davvero, le caratteristiche di Dio stesso, la migliore e sconcertante narrazione del suo amore, diverso e rivoluzionario e per ciò stesso capace di salvare. Dentro quelle mura sono accadute cose: una cena di addio, al cui cuore si sono esplicitati due segni potentissimi, quello del pane spezzato e quello dei piedi lavati dal maestro; la crisi del tradimento e la solitudine dell’arresto. Poi, poco fuori, lo scandalo della morte in croce e il silenzio della tomba; e lo sconvolgimento di una nuova vita, quella del risorto.
Sono segni che forse parlano anche a chi non è credente e praticante, perché hanno a che fare con le domande e le risposte che affollano la testa e il cuore di ciascuno. Dicono della questione delicatissima dell’amicizia e del senso della vita, della prepotenza deludente del tradimento e del peso del soffrire. E se i “maestri del sospetto”, per dirla con Paul Ricoeur, avessero ragione nel declassare il Cristianesimo a semplice consolazione per la nostra impotenza, questo non esaudirebbe la consonanza di quelle domande e di quelle risposte con il nostro cuore. Umano… troppo umano? Forse, ma proprio qui si consuma, come fuoco, il paradosso del cristianesimo, la sua pretesa di novità: qui c’è una filantropia che riscrive il cuore di Dio; qui c’è un dolore e una morte che strappano al buio anche le vite ritenute più inutili, scartate, marginali.
Ecco quello che troveremo varcando quella porta, superando quelle mura. Sono una porta e delle mura che non esistono per difendere e respingere. Esistono per custodire, concentrare e ospitare. Che capiti anche a noi di oltrepassare quella soglia, sedersi a quella mensa e… condividere il destino comune di Dio e dell’uomo.
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