L'ANALISI
CASALMAGGIORE. L'INTERVISTA
03 Gennaio 2024 - 09:51
César Brie
CASALMAGGIORE - Il teatro è fatto di relazioni e di innamoramenti, di fascinazione nell’assistere a uno spettacolo che sta nascendo. È questa suggestione che ha mosso Giuseppe Romanetti, direttore del teatro Comunale ufficialmente in pensione, a ospitare l’anteprima di ‘Re Lear è morto a Mosca’ di César Brie, in questi giorni nel teatro casalasco impegnato a ultimare il disegno luci dello spettacolo. «Tutto è nato proprio dal fatto che Romanetti ha assistito a una delle primissime prove aperte dello spettacolo e se ne è innamorato. Mi ha così chiesto di offrire la medesima emozione al suo pubblico, rendendosi disponibile a prestarci il teatro per una micro residenza. Ed eccoci qui a provare lo spettacolo che debutterà ufficialmente solo il 20 febbraio prossimo, ma che gli spettatori di Casalmaggiore vedranno venerdì sera», spiega l’attore e regista argentino.
‘Re Lear è morto a Mosca’ porta alla luce una vicenda poco nota della storia del teatro che ha a che fare con la libertà d’espressione e la creatività. Da cosa nasce questo lavoro?
«Prima che dalle suggestioni tematiche, nasce da una ricerca che Antonio Attisani ha condotto sul Teatro Ebraico (Goset) di Mosca, fondato dal regista Alexander Granovskij e Marc Chagall insieme a due straordinari attori Solomon Michoels e Veniamin Zuskin, il primo fatto uccidere da Stalin in un finto incidente stradale, il secondo arrestato, torturato per quattro anni e poi fucilato nel 1952. La ricerca storica di Attisani, confluita nel volume Solomon Michoels e Veniamin Zuskin. Vite parallele nell’arte e nella morte, è stata il punto di partenza insieme alla pubblicazione del Re Lear di William Shakespeare, andato in scena al Teatro Ebraico di Stato di Mosca (Goset) nel 1935, curata da Claudia D’Angelo nel saggio Re Lear: storia di uno spettacolo yiddish sovietico e alla testimonianza di Ala Zuskin Perelman, la figlia di Venjamin Zuskin, in I viaggi di Veniamin. Vita, arte e destino di un attore ebreo».
Cosa l’ha colpita della storia del teatro Goset?
«La forza di un teatro che era avanguardia pura, ci hanno ispirato le lettere che Gordon Craig scrisse dopo che vide il Lear per sette volte, dicendo che gli attori del Goset incarnavano il teatro che lui stesso avrebbe sempre sognato di fare. Io e i miei attori/allievi raccontiamo la storia di Micheoels e Zuskin, la storia del Re Lear, uno dei pochi testi di Shakespeare permessi dal regime di Stalin, inizialmente diretto dal regista ucraino Les Kurbas che, ancor prima di finire il lavoro, fu rinchiuso in un Gulag da Stalin e poi ucciso insieme a 1.111 altri intellettuali. Il mio impegno e quello dei miei studenti/attori è quello di riportare alla luce una storia d’arte e di creatività teatrali dimenticata e di rara, profonda intensità».
Tutto questo come si sposa col teatro di César Brie?
«Il progetto è iniziato un anno fa all’interno dell’Isola del Teatro, in Val Tidone, dove ho trasformato il mio granaio in sala prove. Senza nessun aiuto o finanziamento, ho chiesto a un gruppo di giovani allievi di mettersi in gioco con me nella volontà di raccontare la storia di Zuskin e Michoels, cercando di capire cosa il Teatro Ebraico di Mosca abbia rappresentato, perché fu così osteggiato e perseguitato dal regime staliniano».
Sembra di capire senza tradire lo stile César Brie?
«Più che stile, direi il modo di lavorare insieme, di far sì che l’esperienza in sala porti ognuno dei ragazzi a saper fare di tutto, a conoscere tutti i linguaggi che compongono l’arte del teatro. Per questo ci siamo dati un tempo lungo con l’appuntamento di una settimana intensiva di lavoro al mese, in modo da far lievitare nel tempo e negli incontri quanto di volta in volta venivamo scoprendo del Teatro Goset, ma anche quanto le informazioni e il pensiero su questa esperienza scenica dimenticata e perseguitata risuonassero in noi. Ho fatto quello che faccio in Bolivia da sempre. Ogni attore ha portato un suo contributo, in ogni aspetto dello spettacolo, a partire dalla drammaturgia che firmo insieme a Leonardo Ceccanti. Come accade nel mio teatro ogni interprete è anche autore di quello che fa, una serie di azioni che poi, prova dopo prova, perfezioniamo, trasformiamo da materiali in drammaturgia della parola e del corpo nello spazio. E così anche anteprime come quella a Casalmaggiore sono determinanti per lo sviluppo del lavoro, in un certo qual modo la risposta del pubblico in sala ci indirizza e ci fornisce la temperatura di ciò che facciamo in scena».
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