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Danza, nella Grande Mela il tempo è maturo per Farnè

La coreografa cremonese ha presentato la creazione ‘The time is now’ al Dumbo Dance Festival di New York

Nicola Arrigoni

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narrigoni@laprovinciacr.it

22 Luglio 2023 - 15:35

 Danza, nella Grande Mela il tempo è maturo per Farnè

Le due danzatrici sul palco del Dumbo Dance Festival

CREMONA - È una vetrina per la danza contemporanea americana e internazionale nella Grande Mela, per le ultime tendenze coreografiche, è semplicemente il Dumbo Dance festival, giunto alla sua ventiduesima edizione a cui ha preso parte la coreografa cremonese Monica Farné insieme alle sue danzatrici Aurora Milanesi, Cristiana Riberi con la coreografia The time is now. «A organizzare la quattro giorni di danza è la compagnia White Wave, fondata da dalla coreana Young Soon Kim nel 1988 — spiega Farnè —. White Wave esplora il mondo alla ricerca dei più innovativi creatori di danza di oggi, sia emergenti che affermati, e li porta a Brooklyn per il lungo fine settimana del festival a cui ho partecipato con la mia nuova coreografia».

Monica Farnè con Aurora Milanesi e Cristiana Riberi a New York dove ha presentato la sua ultima coreografia dal titolo The Time is Now


Per rendersi conto di quello che ha voluto dire la trasferta newyorkese di Farnè al Dumbo Dance Festival, basta pensare che a mostrare i loro lavori c’erano circa 55 compagnie di danza per un totale di oltre 325 artisti, provenienti da tutta l’America e da tutto il mondo. «White Wave non è solo una compagnia ma è anche un gruppo di sostegno alla creatività coreutica, offre infatti a coreografi e compagnie emergenti e affermati un ambiente in cui riunirsi, creare e presentare nuove opere di danza nel mezzo della scena più importante del mondo, New York City — spiega —. Ciò che mi interessava e mi interessa sempre è trovare contesti in cui mettermi alla prova, cercando un confronto con realtà che non conosco. Il nostro modo di intendere la coreografia contemporanea è diverso da quello americano, è meno muscolare per così dire. Ma è nella diversità che, credo, si riesce a misurare quello che si fa, almeno per me è così. Poi, in verità, amo profondamente New York e ogni scusa è buona per tornarci», ironizza.

In questo articolato contesto in cui produzione, promozione e conoscenza sono un tutt’uno nel segno di una comune via da percorrere, attraverso le emozioni regalate dal corpo in movimento, si pone lo spirito con cui Farnè, Milanesi e Riberi hanno presentato la performance ispirata al testo della scrittrice americana Melody Sumner Carnahan «nota per la sua prosa enigmatica e musicale che utilizza la parola come parte integrante della creazione».

Nel lavoro i due corpi sono strettamente connessi da una fascia che costituisce un limite al movimento e allo sguardo che non può essere rivolto altrove, ma unicamente entro i limiti posti dal tessuto. Si tratta di uno sguardo non visibile allo spettatore che resta volutamente escluso dalla relazione che si instaura tra le due danzatrici. In questo gioco di visione negata e intreccio fisico «si crea quindi una sinergia tra i corpi e il movimento si sviluppa solo attraverso la stretta relazione con l’altro, lo spazio per l’ azione, misurata e precisa, fa si che si mantengano simmetria ed equilibrio perché la tensione della fascia resti costante e si mantengano le esatte distanze tra i corpi — afferma —. Due corpi diventano uno, il movimento ciclico scandisce il tempo dello sguardo che resta sospeso. Le due danzatrici costruiscono e definiscono lo spazio stesso attraverso la geometria dei loro corpi che si muovono mantenendo sempre la stessa distanza».

Visione e assenza di visione nella costruzione e percezione dello spazio sono protagonisti di un lavoro intenso, nuovo ma carico di quello stile che ha reso i lavori di Farnè ben denotati: «Solo alla fine i volti si svelano, lo sguardo si rivolge altrove, lontano, in cerca di una profondità nuova, rivelando il desiderio di guardare in lontananza», conclude. Viene da pensare che quella lontananza che vuol dire ricerca di sguardi nello spazio e nel tempo accomuni il pezzo presentato a New York con la sensibilità della coreografa cremonese desiderosa di mettersi in gioco, di trovare luoghi e tempi in cui mettere alla prova la propria ricerca estetica: «Abbiamo ricevuto molti consensi, anche se il tipo di lavoro che abbiamo fatto è lontano da ciò che gli americani intendono per danza contemporanea. Ma il bello è stato proprio questo: riconoscersi pur nella diversità di stili e poetiche. E poi New York è sempre New York».

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