L'ANALISI
09 Maggio 2023 - 09:18
Roberto Pittu Pitturazzi con Stefania Mattioli
CREMONA - Dadapittutatàbauh. Nel titolo c’è tutto: i riferimenti colti al Dadaismo e al Bauhaus, lo spirito giocoso da scioglilingua infantile, e i due protagonisti - Roberto Pitturazzi e Stefania Mattioli - di un progetto che mette insieme l’arte e l’amore, la malattia e la cura, il mutare delle relazioni quando una malattia degenerativa entra nella tua vita a gamba tesa. Che poi non è sola la tua vita, ma anche la vita di chi ti sta vicino.
Dadapittutatàbauh. Disegnare insieme è l’essenza è una mostra che sarà aperta allo Spazio Te di Palazzo Te, a Mantova, da venerdì prossimo, con inaugurazione alle 17, fino al 31 dicembre. Qui saranno esposte nove riproduzioni fotografiche di altrettante opere scelte fra le sessanta realizzate, in vari formati e con diverse tecniche, da Pittu dal 2018 al 2021. Palazzo Te - grazie al suo direttore Stefano Baia Curioni, che ha apprezzato il lavoro e lo ha voluto esporre - è l’approdo, il porto, il punto d’arrivo di un viaggio entusiasmante e qualche volta doloroso, è il mettersi a nudo come artista e come persona.
Pitturazzi è architetto e designer, ha progettato case, barche e oggetti. Ha sempre avuto una matita in mano, anche quando compilava la lista della spesa o l’itinerario di un viaggio. Quando lavorava o quando girava l’India da solo, quando spiegava le cose o scriveva il menu della cena.
Il Parkinson - la diagnosi è del 2004 - ha cambiato tutto, mangiandosi un pezzettino alla volta della vita di prima. Una malattia degenerativa, puoi rallentarla ma non ne inverti la rotta. Anche se fai qualcosa di meraviglioso e folle come costruire un catamarano in una cascina nel bel mezzo della pianura padana, chiamarlo Barbagianni e farci un giro del Mediterraneo durato mesi, in un 2007 che oggi appare lontanissimo. Perché se il tuo sogno è quello, lo devi realizzare finché ce la fai. Finché il tuo corpo ti ubbidisce e finché i farmaci non ti intorpidiscono, finché sei quello di sempre e non una persona malata. Finché gli altri non ti considerano una persona malata.
«Più una malattia si vede più gli altri smettono di vederti – precisa Mattioli -. Con il Parkinson diventi un corpo storto, obliquo che incespica; un tipo strano, lento che non trova le parole, si muove male e non capisce: uno da cui stare alla larga. Ma tu, sotto sotto, sei quello di prima, hai le stesse passioni e desideri; gli stessi difetti, hai voglia di fare, di viaggiare, di stare con gli amici, di essere compreso. È vero, nel corso della vita le abilità individuali si trasformano, ma questo non può essere inteso solo come un limite: la prigionia del corpo non deve annullare la persona». Il disegno per Pittu è sempre stato un modo per comunicare, con sé stesso e con gli altri, oltre che uno strumento professionale. E così quando il tratto si è fatto via via più incerto, il disegno si è dapprima interrotto e poi nel 2018 è ricominciato «in modo diverso, ma bello».
Disegnare, dipingere si sono trasformati in una nuova urgenza, in un linguaggio nuovo, tutto da creare. «Per me - ha detto - è molto importante provare a capire se sono ancora capace. Sapere che le mie tele suscitano interesse è vitale».
«Negli ultimi quattro anni – aggiunge Mattioli - disegnare insieme ha significato arrivare all’essenza, divertirsi con i colori per muoversi stando fermi, per superare il confine domestico e l’isolamento sociale. È servito a dare corpo a quelle sensazioni piccolissime, imponderabili, che possono rivelarsi uno strumento potente di comunicazione perché, come dice Pittu: ‘è strano come in poche righe si possa riassumere tutto’».
Pennelli, tele, colori acrilici hanno ripreso a raccontare un mondo ricco di riferimenti artistici - Alberto Burri, Alberto Giacometti, Gustav Klimt, Vasilij Kandinskij, Georges Perec, Roman Opalka, Zera Dogan e molti altri - e frutto di un immaginario imprevedibile, stralunato e un po’ sghembo: chi, se non Pittu, potrebbe disegnare una casa in un tombino da cui si vede il mare? O chi, se non lui, pensare a un blu come non si era mai visto?
L’arte è un modo di raccontare e di raccontarsi. È, in questo caso, il bisogno di non essere identificato solo con una patologia. L’arte è raggiungere gli altri quando gli altri si allontanano, l’arte è riconoscersi quando tu stesso fai fatica a ricordare chi eri. L’arte è uno scarto di lato, una deviazione imprevista del viaggio.
«Le didascalie delle opere sono tratte dalle nostre conversazioni - spiega Stefania Mattioli -. Per anni ho annotato su piccoli quaderni le frasi che mi colpivano e mi facevano pensare oppure ridere, comprese quelle nate dalle allucinazioni causate dai farmaci o dall’afasia. Per continuare a comunicare e interagire basta adattarsi, cambiare registro, lasciarsi sorprendere e seguire il flusso senza contrastarlo».
Da oltre vent’anni, Mattioli si occupa di comunicazione e relazioni con il pubblico in ambito sanitario, anche attraverso l’impiego di arte, cinema, letteratura e l’applicazione della Medicina narrativa. Sa che l’arte può essere una cura, può placare l’urgenza di comunicare. Così come sa che non è la malattia a fare di una persona un artista: Pittu, artista, lo era prima e lo è ora. I suoi lavori hanno il pregio della leggerezza, dell’ironia, dell’allegria. E anche della riflessione, ovviamente. Dadapittutatàbauh è qualcosa di più di una mostra: è una porta che si apre, è il disvelamento di uno scorcio di vita imperfetta. E proprio per questo meravigliosa.
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