L'ANALISI
DOCUFILM. L'INTERVISTA
13 Luglio 2022 - 12:25
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CREMONA - Tania, Riccardo, Maria Carla e Luca Andrea hanno accettato di scrivere la sceneggiatura per una docufiction sul caso Alitalia. Lo hanno fatto senza pensarci troppo, «il lavoro è lavoro» sono soliti dire. In questo caso, però, c’è un problema: della vicenda della compagnia di bandiera italiana che il 14 ottobre 2021 ha smesso di esistere i quattro autori sanno molto poco. Quel poco che sanno è piuttosto confuso. È questa la premessa di «Noi siamo Alitalia» di Filippo Soldi, regista cremonese che firma il docufilm dedicato alla storia della compagnia aerea di bandiere.
«Paradossalmente nel plot si riflettono un po’ le perplessità e le difficoltà incontrare nel mettere insieme la storia e nella condizione che tutti noi abbiamo vissuto seguendo il lento declino della compagnia aerea», spiega il regista.
Un rispecchiamento filmico?
«Da un lato c’è un aspetto personale. Girare e confezionare questo lavoro è stata un’impresa contro il tempo e una sfida alla complessità della storia. Occupandomene anche io mi sono reso conto che apparentemente potevo pensare di sapere quello che era accaduto, poi andando in profondità mi sono reso conto che ciò che tutti noi sappiamo di Alitalia sono dei frammenti, ma ci sfugge il disegno del fallimento di Alitalia».
E tutto ciò si riflette nella storia dei quattro sceneggiatori?
«Quattro autori chiamati a girare un docufilm su Alitalia si rendono conto di conoscerne solo apparentemente la storia. Per questo si affidano a due esperti, Gianni Dragoni, di Il Sole 24 Ore e autore di Capitani Coraggiosi, proprio su Alitalia, e Fabrizio Tomaselli, ex dipendente, sindacalista e anche lui autore di un volume su Alitalia. Il film racconta il lavoro di ricerca per costruire il documentario».
Un aspetto meta cinematografico e di rispecchiamento che impone una presa di consapevolezza della storia e di ciò che si sa?
«Il metacinema è una costante nei miei lavori, mi aiuta a trovare la giusta distanza e a costruire un dialogo con lo spettatore. Per questo ho voluto con me attori che avessero esperienza teatrale e li ho trovati in Tania Angelosanto, Riccardo Livermore, Maria Carla Generali e Luca Andrea che fra l’altro danno i loro nomi ai personaggi che interpretano. Sapevo infatti che il materiale documentario (raccolto anche prima del mio arrivo) era molto frammentario. Sarebbe stato un mosaico. Volevo che il tempo della finzione, invece, fosse il più vicino possibile al tempo reale dello spettatore. Cercavo, insomma, azioni teatrali da riprendere i modi più vicini possibili al piano sequenza, senza alterare i loro tempi».
E tutto questo con che esito?
«Ho cercato di raccontare la loro ricerca nel modo più fluido possibile, con meno stacchi che potevo. Il tempo degli attori doveva coincidere il più possibile con il tempo degli spettatori. Perché volevo far sentire l’aspetto quasi documentaristico della parte di finzione: il percorso dei quattro autori/attori coincide con quello che è stato il percorso reale mio e di chi ha scritto questo docufilm».
C’è dunque un ulteriore piano di realtà e di rispecchiamento in questo suo Noi siamo Alitalia?
«Quando mi è stato chiesto di realizzare il docufilm mi sono trovato nella stessa condizione dei protagonisti di Noi siamo Alitalia con la sensazione di sapere quello che in realtà non conoscevo realmente. Ho pensato che questa difficoltà potesse diventare una sorta di opportunità e occasione per raccontare una delle storie italiane che ancora brucia, Cercare di capire può essere allora un gesto veramente rivoluzionario…».
Una costante nella sua attività di regista. Basti pensare a Suicidio Italia. Storie di estrema dignità con cui ha vinto il Globo d’oro nel 2013.
«In quel caso raccontai gli imprenditori che si suicidarono causa degli effetti della crisi economica globale. Anche in quel caso l’idea era di capire le storie di uomini e donne, magari di successo ed economicamente al top, che ad un certo punto non vedono altra via d’uscita. Il linguaggio del cinema mi aiuta a indagare questi aspetti, a fare emergere il non detto, a trovare ciò che non ci si aspetterebbe a una prima visione della realtà, il cinema mi permette di andare dietro, illuminare il non detto o il non visto».
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