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LA CREMONA DEL '500

Lucrezia «meretrix», signora della zona franca di Santa Tecla

Bestemmiatori, giocatori, frequentatori di postriboli e quella protesta dei residenti che suona così attuale

05 Agosto 2021 - 22:10

Lucrezia «meretrix», signora della zona franca di Santa Tecla

L’ex monastero dell’ Annunciata di via Bissolati

CREMONA - La testimonianza, o meglio la delazione di una conversa, riportata nel verbale della Visita Borromeo alla parrocchia di S. Donnino (1575) ci fa conoscere Lucrezia. Lucrezia e basta, senza cognome, senza neppure il consueto indefinito «quaedam», ossia «una certa»: si tratta dunque di una donna conosciuta. Lucrezia è sposata e vive in vicolo Santa Tecla (oggi contrada Santa Tecla, seconda strada di destra di via Massarotti, di collegamento con via Bissolati) insieme alla madre Maria, mentre il marito vive a Milano. Tanta notorietà le deriva certo dal lavoro che ella svolge con spirito imprenditoriale. Di questo è convinto anche il redattore del verbale, visto che indica la qualifica professionale subito nella prima riga, immediatamente dopo il nome di battesimo, facendone quindi un segno distintivo più efficace del cognome stesso: «meretrix» e «lena», prostituta e tenutaria di bordello.

PRIGIONIERA DELL'ILLEGALITÀ


La zona è sicuramente fra le più adatte per svolgere questa attività: nei pressi del vicolo infatti vi sono fortificazioni militari e sempre dove vi sono soldati, il meretricio prolifera. Nel bordello di Lucrezia si bestemmia, si gioca d’azzardo, si compiono illeciti, persino omicidi: il paradiso del vizio, un luogo di perdizione da cui i parrocchiani devoti devono tenersi lontani per salvaguardare corpo e anima. D’altra parte Lucrezia e la madre sono esse stesse prive di ogni scrupolo o freno morale e non esitano a macchiarsi di ogni sorta di infamia impunemente. E la conversa ne riferisce una, evidentemente quella che considera la più grave, il motivo che ha spinto lei a rilasciare questa testimonianza e il redattore a riservare a Lucrezia un’intera carta del verbale: viene impedito ad una delle ragazze ospitate da Lucrezia, pentitasi, di uscire di lì, abbandonare quel mestiere e tornare ad una vita onesta. Non sappiamo se ci sia stato un lieto fine per la vicenda della fanciulla «prigioniera». Quello che colpisce comunque è la sfrontatezza nell’agire contro la legge e soprattutto la certezza dell’impunità propria sia delle due donne, sia dei frequentatori del postribolo. È come se queste persone vivessero in un mondo a parte all’interno del contesto cittadino, una sorta di zona franca posta non ai margini, bensì proprio fuori dalla legalità e libera da ogni controllo da parte dell’autorità pubblica che lì non ha o non vuole avere giurisdizione.

SICUREZZA "FAI DA TE"


Zona franca che va allargata verso la chiesa di San Donnino, come dimostra una lettera di supplica (non datata, ma sicuramente cinquecentesca) inviata ai Deputati dalle monache del monastero dell'Annunciata (costruito davanti alla chiesa) e dagli eredi del defunto Zuffredino Roncarolo relativamente ai problemi di sicurezza legati alla strada su cui si affacciano convento e casa. Come si vede sulla pianta del Campi, si tratta della via stretta e lunga quasi parallela al succitato vicolo Santa Tecla, fiancheggiante il lato sinistro del monastero, che collega la «Strata mastra de Sancto Donino» (ossia la strada su cui si innalza la chiesa) e un terrapieno a ridosso delle mura. Un budello privo di altre abitazioni, quindi zona di scarsissimo passaggio, il che ne fa il punto di ritrovo ideale per gentaglia di ogni tipo: bestemmiatori, giocatori, frequentatori di postriboli (quello di Lucrezia è poco distante da lì), delinquenti (il monastero stesso ha subito un furto nottetempo attraverso un’apertura nel muro di cinta). Non solo: la strada viene usata anche come discarica per immondizie di ogni tipo: persino cadaverini di neonati. E i firmatari della lettera hanno legittimamente paura, per sé e per le proprie cose. Eppure scrivono ai Deputati non per pretendere, come ci aspetteremmo, come sarebbe logico, l’intervento risolutore da parte delle istituzioni, bensì per chiedere il permesso di provvedere da sé al problema mediante una soluzione da loro congegnata che espongono quasi con timore: chiudere da entrambi i lati il tratto di strada su cui si affacciano. Forse perché tante volte hanno chiesto un aiuto che non è mai arrivato, forse perché si sono stancati di chiedere. Cittadini lasciati soli, che da soli devono trovare il modo di difendere sé e le proprie case (monache e eredi Roncarolo) e cittadini che impunemente, sfrontatamente fanno dell’illegalità la loro norma di vita (Lucrezia): le due facce dello stesso problema, la latitanza delle istituzioni. Una storia che si ripete troppo spesso anche oggi.

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