L'ANALISI
12 Febbraio 2014 - 21:11
CREMONA - L’11 febbraio suo figlio ha compiuto dieci anni, ma l’ultima volta che lei lo ha visto e sentito risale a tre anni e mezzo fa «solo per un’ora e mezza al tribunale di Tripoli; il bimbo voleva venire a Cremona con me, poi gli hanno fatto il lavaggio del cervello». Da allora, un silenzio assordante. In tribunale si sono riaccesi i riflettori sul caso di Amina, la mamma libanese di Tripoli, a cui l’ex marito Rabih, 38 anni, connazionale, nel 2006 ha rapito il figlio per indottrinarlo alla Jihad. Da otto anni il bambino vive a casa dei nonni paterni, a Tripoli. Il caso è finito davanti al giudice Francesco Sora: Rabih, che intanto si è rifatto una famiglia e vive a Forlì, è accusato di sottrazione internazionale del figlio minore, nato in Italia da genitori che vivono in Italia. Il reato è permanente. L’udienza è stata dedicata alle questioni preliminari sollevate dal difensore Paolo Carletti, il quale intanto ha premesso che il reato di sottrazione internazionale, per il quale si procede d’ufficio, è stato introdotto nell’ordinamento italiano nel 2009, mentre all’imputato si contestano fatti risalenti al 2006. Carletti ha poi insistito sul difetto di giurisdizione. L’Italia non sarebbe competente. Il giudice si è riservato aggiornando il processo al 26 di febbraio.
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