L'ANALISI
03 Ottobre 2025 - 05:10
CREMONA - Torna, dopo otto anni di assenza dal palcoscenico cremonese, Carmen, il capolavoro di Georges Bizet, in scena al Ponchielli stasera alle 20 e domenica alle 16. Debuttata tra le polemiche nel 1875 e poi ripresa con inimmaginabile successo nei 150 anni successivi, mitica opéra-comique del compositore francese sarà proposta in un nuovo allestimento prodotto da OperaLombardia, con la direzione di Sergio Alapont e la regia di Stefano Vizioli. Classe ’59, nato a Napoli, Vizioli si è diplomato in pianoforte con lode al conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Nella sua carriera trentennale ha collaborato con direttori d’orchestra come Riccardo Muti, Claudio Abbado, Bruno Bartoletti, Michele Mariotti, Daniele Gatti e Ottavio Dantone, realizzando produzioni in tutto il mondo, dalla Scala di Milano alla Lyric Opera di Chicago, dalla Fenice di Venezia all’NCPA di Pechino fino al Colón di Buenos Aires. Per la prima volta nella sua carriera, affronta il principale titolo della produzione di Georges Bizet.
Carmen è tra le opere più rappresentate al mondo, e il pubblico l’ha potuto vedere messa in scena in tutte le salse. Qual è la chiave di lettura che ha adottato per questa Carmen?
«Io ho cercato di evitare per tutta la vita di mettere in scena Carmen: è un titolo che mi spaventava moltissimo perché mi sembrava difficile trovare una lettura indipendente. Vedrete una Carmen piuttosto austera. Ho voluto evitare la ‘cartolina da Siviglia’, anche perché Carmen rappresenta una Spagna molto francesizzata. Una Carmen severa ma cui non mancano passione e fuoco. Il fuoco dell’umanità, non quello di Siviglia. Ho cercato di insistere sulla solitudine di tutti i personaggi, prima fra tutti proprio di Carmen».
Cosa ci dice ancora oggi quest’opera?
«La negazione dell’indipendenza della donna. La libertà di Carmen è un’offesa al maschilismo imperante e la sua morte ci ricorda le notizie che leggiamo spesso sui giornali».
Ha parlato della solitudine dei personaggi. Si tratta di personaggi fortemente tipizzati, quasi archetipici. Secondo lei, possiedono una profondità che talvolta appare più nascosta?
«Assolutamente sì. Carmen mi ricorda una sacerdotessa, una medium, una visionaria. Toccata da tutti ma imprendibile. Accetta stoicamente il suo fato di morte».
Di lei è innamorato Don José.
«Il personaggio più complesso. Per descriverlo, mi sono affidato principalmente alla fonte originaria, cioè alla Carmen di Prosper Mérimée. Il personaggio di José si presenta come un diligente soldatino. Un brigadiere cui si prospetta una grande carriera militare. Fidanzata, mamma, lavoro, regole. Suo malgrado, però, si trova travolto da una serie di fatti catastrofici che lo portano ad essere prima un bandito e poi un assassino. Il suo corpo diventa veicolo distruttivo e autodistruttivo, nella sua fragilità».
Don José è stato a sua volta amato dalla povera Micaëla.
«Una fidanzata fresca, giovane. Ma anche coraggiosa. Dice di aver amato José e, per senso di dovere e confronto, affronta un viaggio periglioso per ritrovare José e confrontarsi con Carmen. La sua è una femminilità alternativa».
Infine, il toreador: Escamillo.
«Uomo di mondo e grande narcisista, ha capito Carmen. Lo dice: ‘Gli amori di Carmen non durano più di sei mesi’. E lo accetta, senza abbandonarsi alla tensione autodistruttiva di José».
Un’opera saldamente ancorata alla tradizione e al repertorio. Su cosa ha voluto porre l’accento? Cosa ha conservato della tradizione e cosa invece ha voluto abbandonare?
«La mia è una formazione da musicista. Per me una guida fondamentale è la partitura. L’unico Leitmotiv con cui Bizet caratterizza quest’opera è il tema del destino, che ricorre continuamente. Non credo che questa sia una Carmen che rompe con la tradizione. Rompe con la routine. Si tratta di un’opera intima: non serve ‘sbalordire il borghese’ con allestimenti sfarzosi. Carmen è un’opera ‘piccola’ nata per un teatro piccolo (l’Opéra-Comique di Parigi). L’intimismo sofferto di persone dolorosamente sole: su questo ho voluto porre l’accento, senza però rinunciare agli aspetti più leggeri. I quintetti del secondo e del secondo atto sono momenti leggeri, da operetta. Va conservata questa schizofrenia, questo contrasto che gioca sull’alternare l’angoscia del momento della lettura delle carte con il quintetto giocoso di Carmen, le sue amiche e i doganieri».
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