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IL COMMENTO AL VANGELO

Il cuore di tutto: il Figlio innalzato

Il gesto di Gesù, libero e irreversibile, svela il vero volto di Dio: non giudice, ma dono. La croce non è sconfitta, ma vertice dell’amore

Don Paolo Arienti

14 Settembre 2025 - 05:20

Il cuore di tutto: il Figlio innalzato

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
(Gv 3,13-17)

Il ritmo del vangelo secondo Luca si interrompe per una tappa eccezionale che rimette al centro, nelle celebrazioni odierne, la croce. È l’esaltazione della Santa croce, una festa che rimanda in modo potente al cuore del mistero di Gesù, il suo destino e le implicazioni delle sue scelte, sino alle terribili pagine del processo con Ponzio Pilato.

Il brano scelto però non è tratto dai racconti della passione. Si è preferito suggerire uno dei brani più affascinanti del vangelo secondo Giovanni: l’incontro notturno tra Nicodemo, notabile del popolo ebraico, ricercatore onesto e messo in forte discussione dalle parole del nuovo rabbi, e Gesù che Giovanni presenta come maestro, protagonista di un lungo discorso.

Al suo termine l’evangelista mette in bocca a Gesù una chiosa che è anche una delle affermazioni più drammatiche e liberanti del Nuovo Testamento: Dio ha tanto amato il mondo da dare (consegnare) suo Figlio. Nel verbo centrale, dare/consegnare (lo stesso termine che ricorrerà nel tradimento di Giuda), è racchiusa tutta la novità del Dio cristiano: i grandi temi della giustizia, del giudizio, della salvezza sono come attratti e rimodellati da questa azione sconcertante che nulla ha da spartire con altre visioni teologiche.

Il mistero di Gesù che prende carne, le sue parole e i suoi gesti di liberazione, il suo consegnarsi alla croce perché si adempia paradossalmente la vittoria di Dio sul peccato del mondo… tutto sta dentro quella consegna compiuta per amore. Per alcuni Padri della Chiesa la stessa morte in croce avrebbe sorpreso Satana, inducendolo alla disperazione: un gesto troppo inaspettato, contraddittorio e impossibile se non filtrato dalla logica dell’amore gratuito che lo stesso Giovanni assegnerà a Dio stesso, come descrizione della sua stessa natura.

Il male, qualsiasi sia la sua natura, non può concepire il dono: lo detesta, lo deforma sino a trasformarlo in calcolo e in interesse meschino… figuriamoci se è disposto a farne l’identità stessa di Dio. Per Giovanni e per la tradizione cristiana invece è proprio così. Anzi, è solo così. Non sono ammissibili pieghe, angoli oscuri, in cui Dio la pensi diversamente sul mondo e sull’umanità, sugli ultimi e sul senso della storia. Non possono esistere rigurgiti di violenza, vendetta, giustizia materiale che farebbe perdere a Dio la pazienza. Dio non ragiona come noi.

Il suo atto d’amore, che addirittura coinvolge la sofferenza del Figlio, intimamente legato al Padre, più che un profeta, più che un eletto, è irreversibile, non soggetto a pentimento. È un gesto solenne, univoco, strutturale, come il pilone che sorregge tutto il resto dell’architettura.

Ecco perché oggi si celebra l’esaltazione di uno strumento di morte come la croce, uno degli oggetti più efferati del dominio romano. Non viene esaltata la sofferenza per la sofferenza, nemmeno la prevaricazione della prepotenza dell’uomo perché si possa dire con spirito rassegnato: va sempre così e andrà sempre così… Al contrario: si esalta il gesto di consegna, libera e generativa, il trionfo di un atto d’amore che riscrive le logiche commerciali e pattizie di cui tutti, bene o male, siamo schiavi, anche a volte nelle forme che riteniamo più sacre di amore.

E l’”infatti” che Giovanni pone a chiusura del Vangelo di oggi lo conferma: lo scopo della storia teologica con gli uomini non sta nell’affermazione di un giudizio esterno, oggettivo, legalistico, bensì nel far prevalere in termini sovrani una salvezza che nemmeno ci aspetteremmo, dato il saldo terribilmente negativo degli affari umani, delle logiche nostrane e dell’infinita sofferenza delle vittime della storia.

Questo oggi si pone al centro delle celebrazioni ecclesiali e per questo la pericope giovannea è come preparata da altre due letture che conducono direttamente al cuore di tutto: la realizzazione del serpente di bronzo ad opera di Mosè e l’inno paolino della lettera ai Filippèsi. Un capolavoro di convergenza che lascia a bocca aperta e che ridà senso a tutti i gesti che i credenti compiono (dal segno della croce ai crocifissi appesi o impiantati quasi ovunque).

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