L'ANALISI
03 Marzo 2025 - 19:55
CREMONA - «Quel sabato pomeriggio del 23 maggio 1992, io dovevo essere lì. Sarei dovuto essere alla guida di una delle due macchine. Invece, per una serie di circostanze, il mio turno fu assegnato al mio collega Antonio Montinaro». Non fa tanti giri di parole, Luciano Tirindelli, già agente della Polizia di Stato in servizio nella scorta del giudice Giovanni Falcone, scampato all’attentato di Capaci, e presidente della Associazione ‘Quarto Savona 15’ (nome in codice della scorta di Falcone), giovedì 6 marzo 2025 ospite del Rotary Club Cremona Po, presieduto da Roberto Frosi, e protagonista dell’incontro: ‘Appuntamento con la storia - Capaci 33 anni dopo’. Tirindelli la mattina alle 11 in sala Maffei incontrerà gli studenti, mentre il pomeriggio (alle 17) incontrerà le istituzioni, le forze dell’ordine e la cittadinanza.
«Mi fa piacere venire a Cremona, quest’incontro era stato programmato prima dello scoppio della pandemia, mi ricordo di essere stato in Questura a Cremona per organizzare tutto, poi accadde quello che è accaduto e non se ne fece più nulla. Giovedì recuperiamo con grande piacere, anche in ricordo di chi non c’è più, dopo la pandemia».
Da quel 23 maggio 1992 Tirindelli non ha smesso di girare l’Italia per testimoniare il pensiero di Falcone: «Il mio obiettivo è mantenere vivo il ricordo di Falcone, a maggior ragione oggi in cui si rischia di non porre l’adeguata attenzione alla lotta alla mafia — sottolinea —. La lezione di Falcone è oggi quanto mai attuale, penso anche al tema dell’impunità dei magistrati, alla separazione delle carriere. Falcone, in merito, aveva idee molto chiare».
Tirindelli torna con la memoria alla fine degli anni Ottanta, al suo ingresso nella squadra di Falcone: «Falcone e Paolo Borsellino stavano dimostrando che si poteva cominciare a respirare un’aria diversa a Palermo — spiega —. Avevano uno spirito di dedizione alla legge e al rispetto delle norme assoluto. Il loro obiettivo era far rispettare la legge e questo, nella Palermo, della fine anni Ottanta, aveva qualcosa di rivoluzionario e di inconcepibile, veniva a sovvertire un ordine non scritto, ma soprattutto un sistema di connivenze e interessi che legava organi dello Stato e realtà mafiose».
E nel leggere le responsabilità che portarono alla morte del magistrato e della sua scorta in quel lontano, maledetto pomeriggio, l’ex membro della scorta del magistrato ammazzato a Capaci osserva: «Non sono certo stati dei pecorai a organizzare l’attentato a Falcone, è stato un segnale eclatante di potere dato a quelle parti dello Stato che stavano minando l’influenza mafiosa nelle istituzioni e nella politica italiane — spiega —. Ci sono chiare corresponsabilità che chiamano in causa parti deviate dei servizi segreti e politici di primo piano dell’Italia di allora, collusi con il potere mafioso. Falcone stava mettendo in crisi tutto questo e doveva essere punito in maniera esemplare».
L’ex membro della scorta di Falcone così racconta le sue giornate: «La mattina presto il capo squadra ci diceva da dove a dove dovevamo portare Falcone — racconta —. Una macchina davanti e una dietro, in mezzo quella blindata di Falcone, colpirlo a Palermo era impossibile, per questo l’attentato è stato fatto fuori dalla città. I mafiosi avevano bisogno di quello che avrebbero chiamato lu attentatonu, il grande attentato. E così è stato, e così se ne è andata una delle persone più incredibili che abbia mai avuto occasione di conoscere— racconta —. Era un lavoratore instancabile. Lo andavamo a prendere alle 8 del mattino e non usciva mai prima delle otto di sera. Bastava un’occhiata, un sorriso per capire che piega aveva avuto la giornata. Riservato, amava la vita, amava Palermo e credeva nella legge a cui ha dedicato tutto sé stesso. Ora il compito di chi lo ha conosciuto è quello di perpetuarne il ricordo e la lezione etica».
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