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LE STORIE DI GIGIO

Il maniscalco «piegato in due dalla passione»

Daniele Perri spiega i segreti di un’arte antica e affascinante: «Mi sono forgiato per il mio mestiere, felice di ridurmi così». L’amore di uno specialista un po’ filosofo e un po’ poeta...

Gilberto Bazoli

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redazione@laprovinciacr.it

17 Febbraio 2025 - 05:25

Il maniscalco «piegato in due dalla passione»

CREMONA - È piegato in due. Le sue mani non si aprono più a forza di impugnare il martello con la destra e la tenaglia con la sinistra. «Mi sono forgiato per stare sotto a un cavallo. Con la ginnastica avrei potuto rimediare a questo degrado, ma non ho mai voluto perché temevo di non fare bene quello che faccio, di non essere comodo per lui, il cavallo». Ne valeva la pena? «Sì, perché io ho amato solo il mio mestiere. Piero Angela citava un saggio indiano: se azzecchi il lavoro che ti piace, non lavori più per tutta la vita».


Daniele Perri, 70 anni, fratello minore di Oreste, pluricampione del mondo di canoa ed ex sindaco di Cremona, sorride e ti guarda dritto negli occhi mentre spiega i segreti dell’arte, antica e affascinante, del maniscalco. «La mia è una passione totale, una follia, ma il cavallo è così: predilige la gente folle, la gente strana». Un po’ filosofo, un po’ poeta, Perri, originario di Marzalengo, casa a Bonemerse, si reca di buon mattino, «dopo il caffè al bar della mia amica Benedetta», a Pieve d’Olmi, nella cascina dove il figlio Alessandro abita circondato da 9 cani, la maggior parte adottati, quattro puledri e due pony. E tre asini.


«Quello bianco si chiama Guido e mi è stato regalato per l’ultimo mio compleanno da una industriale della seta che ha fabbriche in Cina. Vengo qui per aiutare Alessandro, dare da mangiare agli animali e vedere come stanno». Ha ereditato l’interesse per i cavalli dalla madre, Anna. «Oreste, invece, quello per i motori da nostro padre, Pino». Il loro secondogenito ha cominciato a cavalcare, con ottimi risultati e articoli di giornale, sin da bambino alla Società ippica cremonese.

Daniele Perri in sella durante una gara di salto ad ostacoli


«Avevo un grande istruttore, Cesare Tavecchi: mi ha educato tantissimo perché insegnava non solo ad andare a cavallo, ma anche ad essere un cavaliere nella vita». Quel campioncino ha coltivato la sua inclinazione iscrivendosi a Veterinaria a Parma. «Ma essendo molto emotivo, a un certo punto non riuscivo più a sostenere gli esami e, al terzo anno di università, ho smesso».

Ha trovato un posto da impiegato, ma poco dopo si è licenziato per dedicarsi alla mascalcia, la ferratura dei cavalli. «Mi attirava già ai tempi della facoltà. Quegli studi sull’anatomia e la fisiologia mi hanno aiutato molto, perché i bravi maniscalchi di allora erano persone che avevano una cultura, ma una cultura semplice, pratica. Facevano le cose trasmesse di padre in figlio, senza sapere perché le facevano, mentre io riuscivo a spiegarle scientificamente». La sua prima fucina era ricavata in un piccolo angolo del capannone, in via Brescia, del padre, meccanico.

La famiglia: da sinistra il padre Pino, la madre Anna, Oreste, la nonna Carolina e Daniele


«Lì preparavo gli arnesi, poi andavo in giro con il mio furgoncino, su cui in seguito ho allestito una fucina viaggiante. Di chilometri ne ho percorsi parecchi. I miei non erano contenti perché questo mestiere era considerato uno dei più umili, come il sellaio. Mi sono messo in proprio partendo subito in quarta. La passione per il cavallo porta a capire che una delle parti più importanti del suo corpo è il piede. Dietro la podologia ci sono ricerche fondamentali, ci sono radiografie, ecografie, risonanze magnetiche. Il maniscalco raccoglie il risultato di tutti questi studi per dare il meglio al cavallo. Una ferratura sbagliata può creare problemi, è come una scarpa sbagliata, ti viene il mal di schiena. Una ferratura esalta il movimento o lo opprime. E se è perfetta al 98 per cento, il cavallo si accorge di quel 2 per cento».


Perri si spiega con una massima che viene ripetuta nel suo mondo in italiano, francese, tedesco e nelle altre lingue: ‘Non cavallo, non piede: non piede, non cavallo’. «Loro sentono tantissimo il nostro odore, l’odore della paura e della dolcezza. Amano il mio odore perché, appunto, trasmette dolcezza». Per due volte nella sua lunga carriera non è stato così. «Quando indossavo il grembiule di cuoio da lavoro, quei cavalli non si lasciavano avvicinare perché avevano subito un brutto trauma da colleghi precedenti. Ma bastava che togliessi il camice e stavano fermi. La loro è una memoria associativa».

Daniele con uno degli asini che accudisce


Il secondo dei Perri ha conosciuto alcuni dei cavalieri che hanno fatto la storia dell’ippica. Come Graziano Mancinelli. «Il mio maestro, Angelo Lipreri, è stato il suo maniscalco. Ho ferrato qualcosina per Mancinelli. Un uomo duro, ma con una sensibilità straordinaria per i cavalli. Era di origini umili, si avvaleva di persone con una provenienza simile. I suoi groom (addetti di scuderia, ndr) migliori avevano radici cremonesi: la famiglia Santi e i mitici fratelli Giorgio e Carlo Roaldi, ottimi cavalieri e bravi istruttori».


Un altro nome leggendario è Piero D’Inzeo: «Un gentiluomo, una persona squisita. Ho ferrato un cavallo che era a Piacenza e che montava lui». Ha anche collaborato con atleti che hanno partecipato alle Olimpiadi. «Roberta Gentini, che ha gareggiato ad Atlanta, e Fabio Magni, arrivato quinto a Sidney: un successo enorme. Ho ferrato a Roma il suo cavallo e avrei dovuto andare in Australia, ma soffro di claustrofobia. I miei colleghi a Sidney si sono rifiutati di ferrare perché consideravano perfetto il mio lavoro».


Aveva un sogno per i Giochi di Parigi, ma è sfumato: «Ero diventato il maniscalco ufficiale della squadra colombiana e di André Pedalosa, un fuoriclasse, ma alla fine la Nazionale non ha partecipato». In questo periodo sta seguendo Francesca Consolini, giovane campionessa nella specialità degli attacchi. Tanti, nella sua parabola professionale e umana, i nomi di cavalli indimenticabili. «Mi sono innamorato di Cladossa, tedesca che faceva salto ostacoli: quando entravo in scuderia, mi sentiva, mi chiamava. Ha lasciato il segno anche Cerbiatta, italiana: guai con me».

La ferratura

Un altro caso particolare è quello di una pony: «Era inavvicinabile. Aveva un ascesso nel piede dovuto a un trauma o un sasso, non riusciva a camminare. Le ho aperto una parte di suola per consentire all’ascesso di sfogarsi. Da quel giorno è diventata un’altra. Le ho fatto capire che volevo il suo bene: ecco, questo spiega il rapporto tra uomo e animale». Molti sacrifici e rinunce. Compresa quella, anche se può sembrare una contraddizione, di cavalcare: «Ho smesso all’età di 24 anni perché vivevo meglio il cavallo, il contatto con lui. L’equitazione, a volte, lo obbliga a cose che non sono piacevoli».


Ne 2020 Perri ha avuto un grave incidente: «Ero in Svizzera, ho preso dal cavallo un colpo, non in testa, che mi ha buttato in terra. Sono stato ricoverato tre giorni in ospedale per una commozione cerebrale. Per fortuna è successo a fine carriera. Ho provato una grande delusione; non so come mai, ma mi sono sentito tradito. Da lì ho quasi smesso. Ora sono in pensione, se qualche collega ha bisogno di un aiuto tecnico o anche manuale, mi rendo disponibile, ma di rado».

Naturalmente, quell’infortunio non lo ha spinto a ricredersi, nemmeno per un istante, sul suo mestiere: «Mi ha fatto sentire un uomo libero. È una malattia che ti prende. Si deve essere rozzi, perché è una professione dura, e allo stesso tempo sensibili. Sono contento di essermi ridotto così, non ho mai dato peso al mio fisico. Una volta in Svizzera volevano regalarmi dei supporti, degli strumenti fabbricati in America per sostenere il cavallo è lavorare più comodamente, ma ho rifiutato». Alzatosi non senza fatica dalla poltrona davanti al camino, il maestro maniscalco mostra il messaggio che gli ha mandato un amico pittore: ‘Per ferrare magistralmente, ti sei piegato in due’.

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