L'ANALISI
18 Gennaio 2025 - 08:26
CREMONA - Della sua mamma conserva ancora «il grembiule». Lo indossava quando preparava il pane. Lo indossò durante la settimana della Pasqua ebraica del 1944, quando la notte posò «cinque pagnotte grandissime a lievitare». Quel pane è andato perduto, come ricorda il titolo del suo libro e con esso la mamma, che «ripeteva ‘il pane, il pane’» come se volesse salutare le pagnotte, mentre i nazisti ungheresi li portavano via da casa.
Oggi Edith Bruck ha 93 anni. Poetessa, scrittrice e regista ungherese naturalizzata italiana, ne aveva appena 13 quando fu deportata in sei campi di concentramento: Auschwitz, dove arrivò con la madre, il padre, due fratelli e una sorella e da dove tornò con la sola sorella. E poi in altri campi tedeschi: Kaufering, Landsberg, Dachau, Christianstadt e, infine, Bergen-Belsen, dove verrà liberata, insieme alla sorella, nell’aprile del 1945, dopo la marcia della morte.
Sono trascorsi 80 anni da quell’orrore: l’Olocausto.
Istituto Ghisleri, 12.30 di ieri, aula magna. Testimone sopravvissuta della Shoah, collegata dalla sua casa di Roma, Edith torna ai ricordi. Nel suo viaggio di andata e ritorno dall’inferno, la conduce un giovane: Marco Righetti, 26 anni, dell’associazione Solferino Agorà per la pace. Si sono conosciuti nel 2022 a Roma, è germogliato un rapporto di amicizia.
Le parole di Edith sono come lame. Viene il nodo alla gola in chi l’ascolta: gli studenti del Ghisleri e dello Stanga, del Torriani e della Scuola edile. Lei torna ai ricordi. Dal villaggio ungherese di Tiszabercel (Seicase) e dal ghetto della città di Sátoraljaújhely ai lager. Eppure, nel buio dell’orrore, Edith vede «cinque luci». Le chiama così. Sono «cinque gesti di umanità». La prima luce: è appena scesa dal treno, nel 1944. «Ci hanno buttato giù dal vagone come fossimo immondizia». Con i tedeschi che urlano soltanto due parole: destra e sinistra. «Non sapevo che la sinistra fosse la camera a gas e la destra i lavori forzati. Mi hanno buttato a sinistra con mia madre. Ero aggrappata alla sua carne. Un tedesco si è chinato su di me e ha detto ‘Vai a destra, vai a destra’. ‘No, non lascio mia madre!’ Mia madre si è inginocchiata, ha gridato ‘lasciatemi la più piccola dei miei tanti figli!’ Ma il tedesco l’ha colpita con il calcio del fucile, poi ha colpito me».
Edith si ritrova a destra. E «destra voleva dire una possibilità di salvezza, cioè lavori forzati: la prima luce». La seconda luce: il nazista che a Dachau le regala un pettinino, chiedendole come si chiamava, lei che era solo un numero, l’ 11.152. La terza luce: la gavetta con un fondo di marmellata gettatale addosso da un tedesco. La quarta luce: il guanto bucato che un altro soldato le regala. E in quei gesti, «in quel buco c’era la vita, che rappresentava tutto». E infine, a Bergen-Belsen, quando dovevano portare alla stazione dei giubbotti per i tedeschi, «a 8 chilometri dal campo». E lei, la più piccola del gruppo di quindici donne, che non ce la fa e ne butta alcuni per terra. Così, però, fanno anche le altre, stremate. I tedeschi le bloccano, «ghiacciate sulla neve», e minacciano di ucciderne una ogni due se non viene fuori chi ha cominciato. E quando Edith fa un passo in avanti e un nazista le si avventa contro, la sorella si avventa su di lui e lo butta a terra. Il tedesco si alza, «si pulisce i pantaloni dalla neve e ci viene incontro con la pistola». Ma non le uccide: le aiuta ad alzarsi, urlando che se «una schifosa e lurida ebrea ha osato mettere le sue mani su un te-de-sco, merita di sopravvivere». Non le ammazza.
A Bergen-Belsen, per avere una doppia razione di zuppa, Edith e sua sorella trascinano i cadaveri nella ‘Tenda della morte’. «Tra i corpi, un uomo mi ha balbettato prima di morire: se sopravvivi, racconta, non ci crederanno, ma tu racconta anche per noi». Da allora racconta. «Scrivere è come una terapia. Se l’essere umano non vuole sentire, la carta sopporta tutto». E incontra gli studenti. «È il mio dovere morale». A loro dice: «Non ho mai coltivato l’odio né prima né ora. Solo pena, loro (i soldati) mi facevano pietà, perché erano disumanizzati dai nazisti».
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