L'ANALISI
29 Maggio 2024 - 16:59
CREMONA - Il 27 aprile del 2021, in piena pandemia, è stata portata in ambulanza al Pronto soccorso dell’ospedale Maggiore per un problema di vertigini. Per sette ore è rimasta sulla barella, poi, l’anziana paziente dalla barella è caduta. Ha battuto la testa: l’emorragia cerebrale, il coma, l’ intervento chirurgico, il ricovero in Terapia Intensiva, la morte il 13 maggio. Aveva 86 anni Rina Guareschi, una vita da sarta, casa a Stagno Lombardo.
Un medico e una infermiera del triage del Pronto soccorso devono rispondere di omicidio colposo. Il nodo è l’omessa vigilanza. La Corte d’appello di Brescia ha deciso che il processo si deve fare per approfondire, accertare se vi siano o meno responsabilità nella morte dell’anziana Rina. E lo ha deciso, annullando la sentenza di ‘non luogo a procedere’ emessa dal gup del Tribunale di Cremona, sentenza impugnata dalla Procura caldeggiata dall’avvocato di parte civile Luca Curatti. L’Asst è stata chiamata nel processo come responsabile civile.
Oggi, davanti al giudice si è tenuta l’udienza filtro (ammissione di prove, produzione di documenti). Il medico (non era in aula) è difeso dall’avvocato Isabella Cantalupo, l’infermiera (non era in aula) dall’avvocato Diego Munafò, mentre l’avvocato Francesco Meloni rappresenta l’Asst. In aula c’era, invece, Patrizia Uberti, figlia dell’anziana Rina, parte civile con l’avvocato Curatti. L’8 gennaio del 2025 saranno sentititi tutti i testimoni del pm. «Mamma è stata su una barella per tutto il tempo, se la sono dimenticata. È entrata verso le 14, la caduta è intorno alle 21». Si sfoga la figlia Patrizia, 63 anni, infermiera «da una vita»: in passato per più di 20 anni ha lavorato al Maggiore.
La figlia riannoda i fili. «Mia madre non aveva patologie particolari al di là di un grave ipovisus, comunque si gestiva in casa. Aveva una mente ancora brillante. Ricordava a me e a mio figlio le scadenze: ‘Ti sei ricordata di pagare questo, di pagare quello’». Torna alla notte del 27 aprile. «Mia madre ha cominciato ad avere vertigini improvvise, mi ha chiamato. È sempre stata lucida e orientata, vigile e collaborante, però diceva che si sentiva proprio mancare. Infatti, ‘falciava’ l’aria con le mani. Mi diceva: ‘Patti, prendimi, perché ho la sensazione di cadere’. Queste vertigini erano comunque improvvise, ma, lo ribadisco, la mamma non ha mai perso la sua lucidità. Sono riuscita a tirarla fino a mezzogiorno, l’una: ha mangiato, l’ho portata al tavolo, perché, torno a ripetere, queste vertigini erano improvvise».
Dopo un consulto in famiglia (Patrizia e suo figlio), «ho detto a mia madre: ‘È meglio che andiamo in Pronto soccorso per una visita otorino, una Tac, gli esami basilari per escludere qualcosa. Chiamiamo l’ambulanza’». La madre era d’accordo. «È arrivata l’ambulanza, hanno preso i parametri vitali che erano nella norma. Hanno raccolto due righe di anamnesi, sono stati cortesissimi e hanno portato mia madre al Pronto soccorso. Ho chiesto se potevo seguirla, visto che aveva il grave ipovisus. Mi hanno detto di no» per via del Covid. Ma «mi hanno rassicurata: ‘Stia tranquilla, le telefoneranno per farle sapere’».
Mamma Rina è entrata in Pronto soccorso intorno alle 14. Verso le 16.30, la figlia ha ricevuto una telefonata. «Credo di una oss. Mi ha chiesto di ricaricare il telefono a mia madre, perché voleva parlarmi. Le ho caricato il telefonino, l’ho chiamata io. ‘Patti, non mi hanno ancora fatto niente, vienimi a prendere’. Le ho detto: ‘Mamma, aspettiamo ancora un po’. Mia madre era una persona molto paziente, dove la mettevi, stava. ‘Dai pazienta ancora un po’, vedrai che’».
Il telefono di Patrizia ha squillato di nuovo alle 21. «Speravo che mi dicessero: ‘La mamma ha fatto gli esami, tutto okay, venga a prenderla’». E invece, no. «Era il medico del Pronto soccorso. Mi ha detto che la mamma era caduta, è rimasta lucida tre minuti, il tempo di dire dove le faceva male, poi è andata in coma. Il medico mi ha passato il neurochirurgo, il quale mi ha spiegato che dovevano intervenire chirurgicamente, perché dalla Tac era risultato un grave ematoma. Ho dato il consenso. Ho chiesto se potevo andare là, ovviamente mi hanno detto di no. ‘Fatemi sapere’. Mi ha telefonato poi il neurochirurgo, dicendomi che ‘tecnicamente’ l’intervento era andato bene. Io che sono una infermiera da ‘cent’anni’ so che quando ti dicono ‘tecnicamente’, vuol dire che okay, l’intervento è andato bene, ma poi. Mia madre è stata ricoverata in Terapia Intensiva».
In quei giorni la figlia fa avanti e indietro dal reparto. «Sono stati molto cortesi, perché loro mi telefonavano, mi davano notizie, però mi hanno detto che non c’erano speranze». Poi, l’accusa: «Mamma se la sono dimenticata su una barella per tutto il tempo. La caduta è alle 21, presumo che sia successo al cambio della consegna, quando purtroppo noi sanitari ci allontaniamo, ci riuniamo tutti per darci le consegne. Hanno raccolto una breve anamnesi da mia madre. All’età di 86 anni, che sia pur lucida, ma comunque era spaventata. Lo siamo noi più giovani. Lei cieca, nessun familiare accanto. Potevano benissimo telefonarmi e chiedermi l’anamnesi». Il 13 maggio mamma Rina è morta. La Procura ha aperto un’indagine, Patrizia ha nominato un proprio medico legale. Il gup ha poi deciso che il medico e l’infermiera non erano responsabili. Per la Corte d’appello il processo si deve fare. E si farà. «Lotterò fino alla fine, perché lo devo a mia madre, soprattutto agli anziani».
«La corte d’appello non ha espresso giudizi di responsabilità», chiarisce l’avvocato Diego Munafò, difensore dell’infermiera a processo con il medico quella sera entrato in turno alle 21, un’ora prima della caduta dell’anziana Rina dalla barella. «La corte d’appello — prosegue il legale —aveva detto che il gup, con la sua sentenza di ‘non luogo a procedere’, avesse esorbitato troppo i compiti e fosse entrato troppo nel merito e che, quindi, era necessario un approfondimento dibattimentale. Con la riforma Cartabia, il gup non è più un ‘passacarte’, può valutare i fatti ed aveva ritenuto che non ci fossero neanche gli elementi per andare a giudizio. Per quanto ci riguarda, la signora è stata vigilata correttamente».
Il difensore puntella la tesi difensiva. Il fatto va contestualizzato «nel periodo Covid», quando i tempi di attesa erano abnormi, inevitabilmente, e la signora è rimasta in attesa di essere visitata, perché «era in codice verde». In attesa per sette ore. «Bisogna tenere presente che in quel periodo, i tempi di attesa del Pronto soccorso di Cremona erano dalle 8 alle 12 ore. L’infermiera del triage nel corso della giornata ha rivalutato la signora tre volte, la Oss l’ha vista più volte. Era in attesa della visita medica, perché non c’era proprio modo di visitarla prima. Poi non si capisce come mai si è alzata dal letto che era spondinato ed è caduta». «Secondo noi - continua l’avvocato - non c’è stata omessa vigilanza. La signora era sta stata vigilata correttamente, compatibilmente con la situazione del Pronto soccorso in quel periodo» con il medico di turno al pomeriggio che non l’ aveva vista, perché «aveva troppe cose da fare».
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