L'ANALISI
CREMONA
22 Maggio 2024 - 19:00
CREMONA - Un periodo di ‘prova’ della durata di 12 mesi e 120 ore presso un’associazione. Se il percorso avverrà senza intoppi, l’imputato, un 23enne insospettabile commesso residente nel Milanese, vedrà estinguersi il reato di aver adescato, su Instagram, e ricattato una ragazzina di 11 anni, spacciandosi per un 14enne. ‘O mi mandi una fotografia della tua ... o pubblico l’altra. Io pubblico. Adesso pubblico».
E c’è, anche, l’accusa di detenzione di materiale pedopornografico. Nella memoria del suo smartphone, gli investigatori avevano trovato 15 file di inequivocabili immagini di minorenni. Il Tribunale oggi ha detto sì alla messa alla prova - con contestuale sospensione del procedimento – dell’imputato che ha già risarcito la vittima con 5mila euro (la mamma della minore, parte civile con l’avvocato Marco Soldi, ne aveva chiesti 10mila come provvisionale). Il commesso ha infatti preso coscienza della gravità della sua condotta.
«È in terapia, sta facendo un percorso psicologico», aveva detto in una precedente udienza il difensore.
Udienza rinviata al 10 settembre del 2025, quando si valuterà l’esito della messa alla prova. Anche in un processo parallelo a Milano, l’imputato è stato ammesso alla messa alla prova.
Il fatto risale a novembre del 2020, in piena pandemia, il periodo in cui si è registrato un boom di reati su minori.
L’indagine è nata dalla querela presentata in questura dalla mamma della minorenne, il 13 novembre di tre anni fa. La sera prima la figlia, molto spaventata, bussò alla sua camera da letto e si confidò con lei. Le raccontò di essere stata agganciata su Instagram da un tizio di nome Francesco. I due si scambiarono i numeri di telefono, su WhatsApp si fecero alcune video-chiamate e cominciarono a chattare.
Lui la lusingò: «Ciao, volevo conoscerti meglio, mi piaci moltissimo, amore, tu vuoi essere la mia ragazza? Se mantieni la promessa vengo a Cremona per te». Successivamente, l’adescatore chiese alla ragazzina di mandargli una foto di lei in mutandine e felpa. L’undicenne cascò nella trappola, gli inviò lo scatto, ma con l’accorgimento di non riprendersi il volto. L’adescatore le chiese, allora, una foto di lei in mutandine e reggiseno, ma la vittima si stupì, si rifiutò. E lui cominciò ad insistere, tentando di convincerla che la sua richiesta non celava secondi fini. Lei non ne volle sapere. Dalle lusinghe alle minacce e ai ricatti.
Una escalation di volgarità. «O mi mandi la foto o pubblico l’altra sui diversi social e siti per adulti». Le foto non gli bastavano. L’imputato pretese anche dei video dell’undicenne in mutandine e reggiseno. Lei, stavolta, non abboccò: «Non me la sento, ti ho appena conosciuto». Ma più si rifiutava, più lui la ricattava: «Mandami il video». Con la promessa che «poi la smetto», altrimenti «vado a pubblicare, io pubblico, okay io pubblico».
La mattina del 13 novembre di quattro anni fa, la mamma si presentò in questura con lo smartphone della figlia e mentre il sovrintendente riempiva una pagina di querela (41 righe in tutto), il telefonino della figlia fu tempestato di messaggi. Era sempre lui, quel tizio di nome Francesco. Le chiedeva di risponderle con urgenza, minacciandola che se non lo avesse fatto, avrebbe «peggiorato la situazione». Alla querela furono allegati la fotografia e gli screenshot.
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