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LA STORIA. IL DELITTO BECCALLI

Simona: «Un ‘diploma’ la mia cura contro il dolore»

La sorella di Sabrina è diventata coordinatrice degli oss: «Per tre anni non sapevo più sorridere né piangere»

Riccardo Maruti

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rmaruti@laprovinciacr.it

09 Maggio 2024 - 08:50

Simona: «Un ‘diploma’ la mia cura contro il dolore»

Simona e Sabrina Beccalli

CREMA -  Il dolore le ha strappato il sorriso e prosciugato le lacrime: «Per più di tre anni non sono riuscita a piangere», dice Simona Beccalli, sorella di Sabrina, uccisa a 39 anni all’alba di Ferragosto del 2020. Ora, però, mentre parla, Simona può esibire gli occhi lucidi, finalmente libera di sfogare le emozioni rimaste compresse in fondo all’anima. A stapparle il cuore è stato un ‘diploma’: l’attestato di coordinatrice degli operatori socio sanitari rilasciato tre giorni fa dall’ente Futura Formazione di Brescia. Non un semplice pezzo di carta da mettere in cornice, ma un emblema di rinascita capace di spezzare il cerchio dell’incubo. Perché Simona si era appena iscritta al corso di formazione professionale quando i resti carbonizzati di Sabrina — inizialmente scambiati per quelli di un cane a causa del clamoroso errore di un veterinario dell’Ats Val Padana — erano stati ritrovati dagli investigatori.

Simona, oggi 47enne, ha dovuto attraversare un tunnel di angoscia straziante prima di riemergere alla luce della vita e trovare la forza per riprendere il cammino interrotto. «Ho fatto tutto da sola, senza alcun supporto psicologico — dichiara orgogliosa del traguardo professionale raggiunto dopo vent’anni di lavoro fra Rsa e ospedali —. L’appoggio più grande è stato quello di mio marito e delle mie figlie».

Nei suoi anni privi perfino del conforto del pianto, Simona si è mossa quasi esclusivamente fra la casa di famiglia e l’azienda del coniuge: «Non ho più messo piede a Crema — afferma —. Temevo di incontrare Alessandro Pasini (l’omicida di Sabrina, condannato a 18 anni e 6 mesi di carcere, ndr), avevo paura delle mie possibili reazioni. Ancora adesso mi chiedo: perché lo ha fatto? Come può un uomo arrivare a tanto? Io non sapevo neppure chi fosse, ho scoperto il suo nome dai carabinieri, che hanno fatto un lavoro straordinario».

Simona torna con il pensiero, dolorosamente, alle fasi successive al delitto: «I giorni delle ricerche sono stati i più duri, colmi di disperazione. Ricordo la piantagione di granturco sradicata, la cisterna svuotata... e la consapevolezza — terribile — che si è affacciata quando una ex collega, volontaria di protezione civile, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: ‘Sabrina non è qui’. Ho capito che non l’avrei più rivista».

Simona ha potuto solo sfiorare le spoglie della sorella, a mesi di distanza dal ritrovamento: «Un pietoso mucchietto d’ossa — ricorda —. Ho stretto fra le mani ciò che rimaneva di lei». E poi aggiunge: «Sabrina era una ragazza bellissima, sempre allegra, un sole splendente. Aveva un difetto meraviglioso: abbracciava e baciava tutte le persone che conosceva».

L’immagine della sorella sorridente le fa luccicare di nuovo gli occhi: «Vorrei poterla avere al mio fianco. Di lei mi manca tutto». Simona riporta alla mente anche i momenti neri del processo: «Dopo la sentenza di primo grado, ho perso la testa: sei anni per una donna uccisa e bruciata... una cosa inaccettabile. Ma il peggio è venuto dopo, quando ho compreso che Pasini sarebbe stato scarcerato. Sono crollata».

Riconquistare il controllo non è stato affatto semplice: «A partire dal processo d’appello ho ritrovato la fiducia perché sapevo di poter contare su un team affiatato e motivato a dare giustizia a Sabrina. Giustizia fatta? Soltanto in parte». Perché «certe ferite non guariscono mai». Il lavoro è il balsamo con cui Simona ha scelto di alleviare la sua sofferenza: «Con la mia nuova vita da coordinatrice degli oss voglio lanciare un messaggio a cui tengo tantissimo — dice — . Nella sanità c’è tanto bisogno di professionisti capaci e volenterosi. Aiutare gli altri significa anche aiutare se stessi». 

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