L'ANALISI
17 Gennaio 2024 - 19:27
Il carcere di Cremona in via Cà del Ferro
CREMONA - Le urla dei detenuti: «Vogliamo il tampone, fateci il tampone. Vogliamo la libertà, oggi usciamo, distruggiamo tutto. Ci fate morire, mandateci fuori in libertà. Vi ammazziamo tutti». Sgabelli spaccati, finestre divelte. Pezzi e sbarre lanciati contro gli agenti, sedie in plastica date alle fiamme, focolai, un box degli agenti sfondato, i vetri in mille pezzi, telecamere rotte, plafoniere distrutte. Il buio e la coltre di fumo. Due agenti intossicati, un altro colpito al naso con un pugno.
Sono le istantanee della rivolta esplosa a Cà del Ferro l’8 marzo del 2020, in piena pandemia, mentre il lockdown chiudeva l’Italia e decine di carceri italiane furono devastate dalle sommosse. Qui a Cremona, la «falsa notizia di un detenuto e di due agenti positivi al Covid», aveva fatto da detonatore.
Ventitré detenuti imputati a vario di titolo di radunata sediziosa, violenza, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale (tra i difensori gli avvocati Corrado Locatelli, Paolo Brambilla e Gianluca Pasquali).
Sei ore di rivolta nelle sezioni A, C ed E disposte su quattro piani dei vecchi padiglioni. Cinquanta detenuti per sezione. I poliziotti penitenziari che corrono da una sezione all’altra per evitare il peggio, tutti bersagli di oggetti e insulti. Dentro, «il caos». Fuori le forze dell’ordine.
Angelo Minì oggi è in pensione. All’epoca era sovrintendente capo. Teste del pm onorario Silvia Manfredi, ritorna a quell’8 marzo di ferro e fuoco. Ore 19.30. Lo chiamano i colleghi della sezione A e C: i detenuti non vogliono rientrare nelle celle. Sono tutti nel corridoio, il cancello è chiuso a chiave. Minì si mette a parlare con due di loro «per capire il problema, ma non mi davano retta. Ho visto del fumo, il fuoco era in fondo al corridoio. Abbiamo aperto il cancello».
Il tunisino Kouki, torso nudo, è il «leader» della sezione. Si para davanti a Minì insieme al connazionale Najel, gli altri lo accerchiano. Minì e gli agenti faticano a chiudere il cancello. «Noi lo tiravamo, i detenuti lo spingevano per aprirlo».
Al di là delle sbarre, i detenuti lanciano «pezzi di sgabello». «Ci lanciavano oggetti, spranghe di ferro: avevano divelto le finestre. Ce li lanciavano addosso, passavano attraverso le inferriate del cancello», ha poi spiegato il commissario capo Saverio Masi, vice comandante. C’è chi bagna gli agenti con l’idrante. Minì si sposta nella sezione A, al piano terra: «Anche lì c’era fermento». La sezione è stata allagata con l’idrante. «Volevano il tampone, c’erano fuocherelli, piccoli incendi». Intorno alle 20, il comandante Pierluigi Parentera va immediatamente nella sezione C, «la più problematica. C’erano tantissimi detenuti», ma «la memoria è chiara su Koukil», il tunisino a «petto nudo» che «incitava gli altri e creava disordine. Si batteva i pugni sul petto. Gridava, ‘Vogliamo la libertà, oggi usciamo. Distruggiamo tutto, vogliamo la libertà». Parentera viene richiamato «per i disordini nella sezione A», poi ritorna nella C. «Avevano rotto le plafoniere, non c’era più luce. Non si vedeva più nulla anche per il fumo. Non volevano uscire dalla sezione, ma si rendevano conto che non stavano respirando». Ci pensa l’ispettore Martucci a farli evacuare nel cortile della sezione. Perché Parentera viene richiamato nella sezione A «per problemi al piano terra: pretendevano di fare i tamponi». Un detenuto «roteava la telecamera».
Intanto, su al quarto piano, la sezione E si riempie di fumo. «I detenuti erano in pericolo - ha detto il vice comandante Masi -. Bisognava metterli in sicurezza». Perché «l’aria era irrespirabile», ha confermato l’agente che con i colleghi ha portato i detenuti nel cortile.
Durante le fasi di evacuazione delle sezioni, «alcuni detenuti hanno cercato di aggredire il personale. Uno di loro ha sfilato il manganello a un agente».
Il processo è stato aggiornato a 26 giugno prossimo.
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