L'ANALISI
18 Settembre 2022 - 05:30
Sette giorni alle elezioni. Domenica prossima a quest’ora i seggi saranno aperti (ma soltanto fino alle 23). Sarà una votazione lampo, oltre che fuori stagione, e il rischio è che la compressione dell’orario contribuisca a favorire ulteriormente il «non voto», fenomeno in continua espansione e già preoccupante di suo.
Altro che «il Paese andrà in rovina» in caso di vittoria di questo o di quello! Il vero pericolo è il nuovo record di astensionismo, fattore ormai a un passo dalla soglia di allarme.
Se alle prime elezioni Politiche, nel 1948, partecipò il 92,2% degli aventi diritto, nelle ultime (2018) si sono presentati alle urne meno di 3 cittadini su 4 (l’affluenza si è fermata al 72,9%, record negativo nella storia della Repubblica) e stavolta potrebbe perfino andar peggio.
Come impedirlo? Uno studio dell’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (Idea) rivela che in ben 26 Paesi del mondo il problema è stato affrontato trasformando il diritto di voto in dovere di voto: in quei 26 Paesi il cittadino che non si reca alle urne - se non ha una giustificazione scritta, come a scuola - rischia una multa, la perdita di alcuni diritti o addirittura la possibilità di accedere a determinati servizi pubblici. Soluzione drastica, ma poco o nulla efficace, considerato che - nonostante lo spauracchio - in quei 26 Paesi l’affluenza al voto resta al di sotto del 70%.
In Italia lo scorso aprile il ministero dei Rapporti con il Parlamento ha dedicato al tema un libro bianco intitolato «Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto», 243 pagine dense di dati e di analisi, condensabili in tre proposte chiave:
1) l’accorpamento in un’unica data delle consultazioni Politiche, Amministrative ed Europee (di fatto avviene già, ma i Governi durano troppo poco per poter programmare davvero un solo Election Day);
2) la possibilità di votare in un seggio diverso rispetto alla città di residenza (favorirebbe gli studenti universitari, chi lavora in una città diversa da quella in cui risiede e chi si trova in vacanza il giorno delle elezioni: in totale, oltre 5 milioni di italiani, pari al 10% del corpo elettorale);
3) l’introduzione del voto elettronico, sulla carta la soluzione più efficace, sul piano pratico la più difficile da realizzare, perché - per quanti progressi abbia fatto la tecnologia negli ultimi anni - sono ancora troppe le garanzie che mancano sul piano della trasparenza, della privacy e della sicurezza. Chi gestirebbe la piattaforma del voto, i server e il flusso dei dati così da impedire brogli e manipolazioni? Quale scudo digitale sarebbe inscalfibile dagli hacker? Come si potrebbe garantire la segretezza del voto se l’unica possibilità di verificarlo è associarlo all’identità digitale di chi lo ha espresso? Attenzione: si parla di voto a distanza, da remoto, non del voto elettronico espresso in un seggio tradizionale, come già avviene negli Stati Uniti e in pochi altri paesi del mondo grazie alla «vote machine».
A fare la vera differenza sarebbe la possibilità per ogni cittadino di votare da casa, usando il proprio pc. Ma non è un caso se finora l’unico Stato che la propone ai suoi cittadini è l’Estonia (che ha solo un milione e 331 mila abitanti, come la provincia di Bari o la provincia di Brescia) e se anche da quelle parti è escluso l’utilizzo dello smartphone: chi vota on line lo può fare soltanto da un computer fisso. In questo caso non si tratta di un limite tecnologico, ma concettuale, perché secondo gli esperti votare con un semplice click sul telefonino toglierebbe sacralità al voto: un conto è mettere un «like» sotto il video del cantante preferito o il post di un amico, tutt’altro scegliere in un secondo chi dovrà Governare il Paese. Non solo.
Le ragioni per cui il voto digitale non si è diffuso su larga scala sono anche più profonde, dalla scarsa dimestichezza di larga parte della popolazione con le nuove tecnologie al clima di sospetto che ancor oggi avvolge tutto ciò che sta in rete o su una nuvola e - per questo - non può essere controllato da mano umana. Il frutto, insomma, non è ancora maturo. Ma probabilmente fra qualche anno lo sarà.
Nel frattempo, andrebbe fatto un tentativo per coinvolgere i cittadini che non votano, l’esercito degli astenuti che, se si coalizzassero sotto un’unica insegna, sarebbero addirittura il primo partito! Il problema è che il Partito del Non Voto non ha rappresentanza in Parlamento: disertare le urne rappresenta sì un segnale di protesta, ma di fatto è un voto perso.
Per questo negli ultimi sette giorni che restano da oggi alle elezioni del 25 settembre i leader dei vari partiti - anziché insultarsi a vicenda o fare promesse impossibili - dovrebbero cercare di «riconquistare» quei 12-13 milioni di italiani che secondo le previsioni domenica prossima non andranno a votare. Lo studio ministeriale dello scorso aprile li divide in tre categorie: gli Astenuti Involontari (lavoratori e studenti fuori sede e vacanzieri non disposti ad affronteranno un viaggio di andata e ritorno solo per poter votare); gli Alienati (così lo studio definisce i cittadini che non votano a prescindere) e gli Indifferenti (quelli che non votano perché l’offerta non li soddisfa, non si sentono rappresentati da alcuna forza politica o pensano che «è tutto inutile: che vinca questo o quello, non cambierà mai niente»).
Il tema è delicatissimo. Ne va della democrazia e, ancor più, della tenuta sociale di un Paese che nei prossimi mesi rischia di implodere, fra caro bollette, inflazione alle stelle, tasse insostenibili, pensioni-miraggio e milioni di posti di lavoro a rischio. Una tempesta perfetta che può essere affrontata solo con il contributo di tutti. E senza lasciare indietro nessuno.
Copyright La Provincia di Cremona © 2012 Tutti i diritti riservati
P.Iva 00111740197 - via delle Industrie, 2 - 26100 Cremona
Testata registrata presso il Tribunale di Cremona n. 469 - 23/02/2012
Server Provider: OVH s.r.l. Capo redattore responsabile: Paolo Gualandris