L'ANALISI
23 Aprile 2022 - 05:00
La piazza del municipio di Spino D'Adda con il monumento ai caduti
SPINO D'ADDA - «Eravamo una famiglia numerosa e felice come lo si può essere in tempo di guerra. Poi, i nazisti ammazzarono mio padre Mario e, sempre per causa loro, morì anche il mio fratellino Pier Giorgio: aveva solo due mesi». Sono passati 77 anni, ma nel ricordare quella tragedia, datata 27 aprile 1945, Ludovica Bruschi ha ancora le lacrime agli occhi. L’86enne oggi vive a Paullo. Allora, con i genitori e i quattro fratelli, abitava in centro al paese. Lunedì alle 10, in occasione delle celebrazioni della Liberazione in piazza XXV Aprile, il Comune ricorderà il fratellino, riconoscendo il bimbo come vittima dell’eccidio di Spino d’Adda, in cui morirono nove persone. Tra loro Luigi Chiesa, all’epoca adolescente, a cui è dedicato l’istituto comprensivo.
Quel massacro, da parte delle truppe tedesche in ritirata verso il Brennero, fu una rappresaglia, per l’uccisione di alcuni soldati, proprio mentre la colonna attraversava il territorio. «Una delle pagine più tristi della storia del paese – sottolinea Claudio Bordogna, tra gli spinesi che più si è prodigato per il riconoscimento alla memoria di Pier Giorgio –. I nazisti arrivarono a casa Bruschi, e il padre Mario venne poi fucilato. Vittima dello stesso atto criminale fu il figlioletto: la madre lo teneva in braccio. Cadde, picchiando la testa, quando un soldato nazista spintonò la donna per allontanarla dal marito che veniva portato fuori casa. In seguito ai traumi, morì dopo circa due mesi».
La sorella Ludovica, non ha mai dimenticato quei giorni. «Avevo 9 anni, ricordo che passò una macchina, una Balilla, davanti a casa e per tutte le vie del paese: con l’altoparlante, avvertiva la popolazione che sarebbe passata una colonna tedesca, in ritirata, in viaggio verso il Brennero: erano soldati a cui premeva solo arrivare a casa al più presto. Non so chi sparò loro, ma sono certa che non furono partigiani. Erano quelli che oggi chiameremmo bulli, convinti che i militari trasportassero in patria un tesoro, pensavano di metterli in fuga con due colpi di fucile. Mesi dopo parlai a uno di loro, gli ricordai le sue colpe, lui non proferì verbo». La raccomandazione che in quelle ore venne fatta agli spinesi era quella di rimanere in casa e di esporre lenzuola bianche alle finestre, in segno di pace.
«Se non fossero stati attaccati, i tedeschi non ci avrebbero fatto nulla – prosegue Ludovica –. Abitavamo in piazza, nella casa dove oggi c’è il tabaccaio; la banca dove lavorava il papà era distante poche decine di metri». La colonna fu però attaccata prima di entrare a Spino. «Sentendo gli spari, il papà chiuse la banca e venne a casa. Mezz’ora dopo, arrivarono le SS: chissà perché, ricordo molto bene gli stivali di uno di loro, lucidissimi. Aveva in mano una pistola e minacciava il papà. Insieme a lui, entrarono altri due soldati con il mitra. Ci intimarono di stare ferme mentre portavano via il papà e mio fratello Gianfranco (il più grande, ndr). La mamma, con in braccio Pier Giorgio, nato poco più di due mesi prima, corse ad abbracciare il papà. Per impedirglielo, un militare le diede una gomitata, colpendo anche il piccolo e facendolo cadere. Piangeva forte: dopo pochi minuti, gli si gonfiò la testa. Noi, nell’angolo, terrorizzate e piangenti».
Per giorni i Bruschi rimasero tappati in casa, sino al ritorno del fratello. «Ancora oggi non sappiamo dove sia stato: lui non è mai stato in grado di dircelo, aveva rimosso dalla mente la terribile esperienza». Aveva visto fucilare il padre. L’agonia di Pier Giorgio è durata due mesi: «Piangeva giorno e notte – ricorda Ludovica – e noi lo abbiamo sempre tenuto in braccio. Per tranquillizzarlo qualche minuto, avvolgevo un cucchiaino di zucchero in un lembo di fazzoletto, bagnavo il tessuto e lo mettevo in bocca al piccolo. Poi, ha finito di soffrire, ha posto fine al suo supplizio».
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