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IL COMMENTO AL VANGELO

Su e giù dal monte, tra luce e mistero

La vera gloria di Gesù si compie nel sacrificio. I discepoli devono imparare a riconoscere Dio anche nell'oscurità della croce

Don Paolo Arienti

16 Marzo 2025 - 05:05

Su e giù dal monte, tra luce e mistero

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

(Lc 9,28-36)

La fede cristiana parla senza dubbio ai semplici. Ci raggiunge con la forza convincente e totalizzante dell’amore. E l’amore vero che tutti vorremmo sperimentare, non è il risultato di una equazione: accade e basta. Anzi fa della gratuità la sua sostanza più piena. Eppure, il Vangelo ci presenta anche la complessità di un mistero che canalizza l’amore nel sacrificio: Gesù manifesta l’amore più grande del Padre non attraverso una conferenza accademica o una deduzione scientifica, ma con la narrazione della sua stessa vita, ed in particolare con le vicende che si addensano nei suoi ultimi giorni. È a quel mistero che la Quaresima è orientata: si cammina verso Pasqua perché è necessario tornare a condividere il senso di quegli eventi, la loro portata, la loro profondità.

Forse è anche per questo che la Trasfigurazione ci viene offerta come una tappa: una sorta di ascesa verso l’alto, perché il “troppo basso” della vicenda di Gesù, il servo che soffre e dà la vita, non ci travolga. Sappiamo che nella Bibbia, soprattutto nella tradizione ebraica, i luoghi innalzati, i monti, le vette… sono carichi di un fascino teofanico: lì si manifesta la presenza di Dio, proprio mentre ci si distanzia dal quotidiano orizzontale, dall’andare e venire spesso furibondo ed errabondo delle giornate “comuni”. L’altro, il monte funge così da potente simbologia religiosa: si ascende per lambire meglio un mistero che resta avvolto dalla nube, dalla stranezza… un mistero che addirittura fa assopire i discepoli, come se venissero travolti dalla “pesantezza” della rivelazione. Un misto di oppressione, gioia, incredulità… tutti stati d’animo che servono per evocare il tocco di Dio, del trascendente, del completamente altro… che consola e atterrisce, manifesta luce e coincide con il buio, come è ben espresso in un’altra teofania, quella che coinvolge Abramo, il patriarca, pure lui preso da “torpore” proprio mentre “passa” Dio a trovarlo.

Anche in Nuovo Testamento conosce il codice, la cifra del monte della rivelazione, dell’eccezionale che si comunica rispetto al piattume del feriale. E lo applica all’episodio della Trasfigurazione: una conversazione divina ambientata in alto, riservata a pochi, avvolta nel mistero.

Luca sa che avere a che fare con la Pasqua significa in definitiva saper scorgere la gloria di Dio nell’oscurità di un crocifisso, nel buio che si fa su tutta la terra, quando la fedeltà di Dio pare interrotta dalla prepotenza cieca del male. Quando la morte spezza i legami di bene che sono visibili ai nostri poveri occhi. In quest’ottica un evento sbalorditivo, fatto di strani accadimenti è come una premessa sconvolgente al vero sconvolgimento che non tarderà a travolgere proprio i discepoli.

La fede evangelica costringerà i discepoli al duro allenamento dell’incarnazione: si incontra un uomo, si aderisce ad una biografia tale e quale alla nostra, eppure di qualità diversa, singolare… segnata dalla passione di Dio per l’umano. Quale gloria ci può essere in un crocifisso? Quale luminosità in un perdono non violento, in una sofferenza che non cova vendetta? È questo infondo l’esodo di Gesù cui la Trasfigurazione allude nella conversazione con Elia e Mosé: il suo passaggio alla gloria del Padre non avviene tramite una intronizzazione di luce, ma sul trono della croce. A questo i discepoli devono prepararsi. È su questa sua estrema solitudine fatta di carne debole che devono sincronizzare la ricerca della gloria di Dio. Operazione per nulla facile, se interroghiamo l’istinto religioso che alberga dentro di noi e che ci spinge a produrre schemi chiari e distinti: Dio, se esiste, può stare solo in alto, solo nella luce. Tutto il resto, in forma degradante, se ne allontana progressivamente, sino alla quotidiana materialità che pare ignorarlo. I discepoli al contrario dovranno scendere dal monte con la consegna di tacere quello che hanno visto e di coniugarlo con quello che vedranno: un ossimoro, una contraddizione stridente!

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