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L'ULTIMO COLTIVATORE SI RACCONTA

«Per me le Radici di Soncino sono più di una tradizione»

Domani la famosa sagra, attesi migliaia di visitatori. Bosio (Oroverde): «Una pianta officinale

Andrea Niccolò Arco

Email:

andreaarco23@gmail.com

22 Ottobre 2022 - 05:05

«Per me le Radici di Soncino sono più di una tradizione»

SONCINO - Domani è il grande giorno. Per la cinquantaseiesima volta Soncino festeggerà, con la Pro loco, le sue radici amare. Ma, ancora oggi, in molti fuori dalle mura del borgo le conoscono poco o addirittura per nulla. Quindi, cosa sono davvero? Perché si chiamano così? Cos'hanno di tanto speciale. Tante domande e una sola persona che può rispondere, Roberto Bosio. È lui con la sua Oroverde, infatti, l’ultimo coltivatore della vera Radice di Soncino.

E, perfino dopo l’anno più difficile di sempre per gli agricoltori, non perde l’entusiasmo e anzi porta buone notizie: «Sono rimasto da solo a coltivarle, chissà se in futuro qualcun altro vorrà provarci. Intanto dobbiamo pensare a raccontarle, perché c’è speranza anche di crescere. La radice amara non è più la verdura di contorno, è il piatto ricercato e raffinato che cercano gli chef per i loro ristoranti, anche perché non è solo buona, è una pianta officinale riconosciuta dalla medicina. Mi hanno chiamato da Roma per sapere dove trovarne ma, al momento, Firenze e Bologna sono i confini. Andremo oltre se sapremo spiegarci bene».

Roberto Bosio (Oroverde), l'ultimo coltivatore delle radici 


Domani è sagra e con la sagra arrivano le radici. E sono tanti quintali, sembrano un’infinità. Eppure vengono tutte dallo stesso posto. Dai campi di Oroverde che si estendono in tutto il borgo, dal capoluogo a Isengo, passando per Villacampagna e Gallignano. Settant’anni fa le producevano sei aziende di famiglia. Oggi è rimasto solo Bosio che, in prima persona, porta avanti da vent’anni la tradizione che fu del papà. Ogni anno fa crescere e porta sulle tavole degli italiani tra gli ottocento e i mille quintali del gioiello amaro. Il 40% circa in meno quest'anno, per colpa del clima, ma a denti stretti si è superata anche l’ennesima difficoltà. «Niente paura – assicura –, le radici che ce l’hanno fatta saranno buone come sempre. Un po’ più piccole, questo sì».


Più piccole, ma di solito come sono? Le Radici Amare di Soncino hanno la forma che ricorda quella di una carota ma sono più curve e «butterate» e di colore beige. «È vero – ironizza Bosio –, rispetto alle altre radici amare sono meno belle. Però il sapore e le sue proprietà sono su un altro livello». E il motivo dell’aspetto poco invitante, del sapore straordinario e delle proprietà benefiche, per quanto possa sembrare strano, è sempre lo stesso: «Dipende tutto dal nostro sottosuolo, la terra di Soncino – rivela l’ultimo coltivatore –. La forma caratteristica delle Radici Amare di Soncino è dovuta al fatto che crescendo incontrano sul loro percorso le rocce che, certo, non posso spaccare. Ecco quindi che le aggirano, prendendo una forma curva, e assorbendo al contempo le proprietà dei minerali».

Sì, il segreto è tutto qui: il contatto coi «sassi sotterranei» di cui il borgo è ricchissimo, così come d’argilla e risorgive. «Non è un modo di dire o una tradizione popolare – spiega infatti Bosio –, che le radici di Soncino facciano oggettivamente bene al nostro corpo l’hanno dimostrato studi scientifici e lo ricordano costantemente i medici. Ulteriore riprova è che non commercializziamo banalmente una verdura ma, da un punto di vista della distribuzione, immettiamo sul mercato quella che è definita e regolata come pianta officinale». Non a caso, oltre agli chef per i loro piatti gourmet (in primis quelli di InChiostro), tra i più avidi consumatori di radici vi sono le persone che soffrono di anemia e di diabete. Grazie alle proprietà organolettiche e alla loro peculiare composizione chimica, infatti, le Radici Amare di Soncino fanno bene al sangue così come alla digestione, oltre a essere un disintossicante naturale.


Buona come un Tartufo d’Alba, poi naturale, eppure efficace quanto un medicinale. Allora perché, anche nel Cremonese, è scomparsa dalle tavole? «Da prodotto di largo consumo a livello locale è diventato genere di nicchia per estimatori – chiosa Bosio –. Dobbiamo farle conoscere ancora meglio e ancora di più ma possiamo provare anche a resuscitare i nostri vecchi costumi e le nostre tradizioni. Il futuro passa da qui. Anche attraverso la Sagra».

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