L'ANALISI
10 Ottobre 2025 - 22:02
CREMONA - È una mostra che celebra la bellezza, che «incarna il bello dell’uomo, del divino che si abbassa a diventare umano»: Il Rinascimento di Boccaccio Boccaccino - da oggi, venerdì 10 ottobre 2025, all’11 gennaio al Museo diocesano - accende i riflettori su un artista poco noto fuori dai confini locali, che sembra aver unito in sé le influenze milanesi e le aperture emiliane, le tre stelle che illuminarono la Venezia del Cinquecento - Bellini, Giorgione e Tiziano - e il tedesco Dürer, la vena anticlassica di Bembo, di Altobello Melone e del Pordenone che con lui si arrampicarono sulle impalcature della cattedrale di Cremona per affrescarne le pareti. Per non dire dell’ammirazione per il Perugino conosciuto nella chiesa di Sant’Agostino, e di quanto visto a Roma e prima ancora a Genova. «Il nostro è un museo piccolo e giovane - spiega don Gianluca Gaiardi - che del Diocesano è direttore -, ma da subito abbiamo cercato di offrire alla città un dialogo non religioso, ma spirituale ed evangelico. Il Vangelo racconta il bello ed è di questo bello che abbiamo bisogno in questo periodo storico».
Il sindaco Andrea Virgilio sottolinea la capacità di tessere relazioni da parte del Diocesano, evidenziando «con orgoglio» che «Boccaccino si colloca in periferia e ha saputo accettare la sfida della contemporaneità». Fa poi sua la celebre frase di Luigi Lanzi, storico dell’arte del XVIII secolo, che definì Boccaccino «il miglior moderno fra gli antichi, e il miglior antico fra i moderni».
Gabriele Barucca, già soprintendente - il ruolo è attualmente vacante - ricorda come la mostra sia frutto di un lavoro di squadra nato dall’acquisizione della Pala Fodri, inizialmente invenduta all’asta Millon. E soprattutto rimarca che «non si deve parlare solo di tutela e di valorizzazione dei beni culturali, ma di conoscenza. La cultura non può essere solo un veicolo per il turismo, la cultura è anche una questione di identità».
Di «vita, contemplazione e incontro» parla il vescovo Antonio Napolioni, che vede nel Boccaccino «un volano di speranza». «Spesso dall’esterno si ha un’idea di una Chiesa divisa tra chi si occupa della conservazione dell’arte e chi invece va al fronte: nelle parrocchie, tra i malati, tra i poveri. Ma non c’è scissione. Noi celebriamo ogni giorno in mezzo alle immagini del Boccaccino, sono una finestra sull’immensità. Questa è una mostra bellissima, ditelo anche in giro».
«Boccaccino è un pittore stupendo, meritava un’iniziativa importante come questa», commenta Filippo Piazza, cocuratore della mostra. «Di lui si sono occupati Cavalcaselle, Mina Gregori, Longhi, Ballarin, Tanzi, Frangi e recentemente c’è stata una piccola mostra a Brera - ricorda -. Eppure fuori da Cremona resta un artista noto solo agli addetti ai lavori. Era un protoclassico che ha saputo aggiornarsi fino ad aprirsi ai pittori anticlassicisti. Ogni mostra per un curatore è un sogno e questo è un sogno che oggi si avvera».
Spetta a Francesco Ceretti, l’altro cocuratore, raccontare la vita dell’artista, che si riflette nel percorso espositivo. Boccaccino nasce intorno alla metà degli anni Sessanta del XV secolo a Ferrara, dove il padre cremonese ricamatore alla corte degli Estense.
«È un artista caleidoscopico - dice Ceretti —, che si muove tra la Valpadana, Venezia e l’Emilia». Nel 1493 è a Genova, chiamato dagli eremitani di Sant’Agostino. Poi va a Milano: la città è quella di Ludovico il Moro, la cerchia artistica è quella leonardesca, tipicamente lombarda. Ma Boccaccino non è un tipo tranquillo, è abile con il pennello ma anche con la spada: in una rissa ferisce un miniatore e finisce in carcere. Un comportamento «protocaravaggesco», lo definisce Ceretti.
Ma se la pittura di Caravaggio è un urlo che riflette la vita tormentata e tragica dell’artista - e così sarà per l’opera di Artemisia Gentileschi -, i dipinti di Boccaccino sono un sussurro, un’oasi di pace esaltata dagli sguardi sereni e dai colori splendenti. In ogni caso, è Antonio Costabili, ambasciatore ferrarese, a tirare l’artista fuori dalla prigione e a spedirlo a Ferrara, assicurando che Boccaccino è tra i migliori pittori che ci sono in Italia.
A Ferrara, apre e scuola e bottega, colleziona committenze importanti. Ma è un violento e non sa controllarsi: nel 1500 uccide la «mogliera che gli fa le corna», come è annotato nei documenti dell’epoca. Fugge a Venezia, forse non a caso perché dal 1499 Cremona è finita sotto il dominio della Serenissima. Il termine femminicidio non è ancora entrato nel vocabolario, uccidere la moglie fedifraga non è considerato un reato particolarmente grave.
Boccaccino in Laguna lavora molto e assimila le lezioni di Giorgione e di Giovanni Bellini. Non è un imitatore, tutt’altro. È affamato di novità e, pur mantenendo il suo stile originale, Boccaccino guarda, impara, rivisita. Nel 1506 la fabbriceria del duomo di Cremona lo chiama per affrescare il catino absidale e la lunetta dell’arco santo.
A lui sono affidate anche le Storie della Vita della Vergine e dell’Infanzia di Cristo nella parte sinistra della navata centrale. I lavori sono eseguiti tra il 1514 e il 1519, dopo un soggiorno romano e quando in cattedrale sono all’opera anche Bembo, Altobello Melone e il Romanino e sta per arrivare il Pordenone.
Sono tutti portatori sani di anticlassicismo e anche loro contribuiscono a un’ulteriore evoluzione della parabola artistica di Boccaccino. Va da sé che gli affreschi della cattedrale sono il proseguimento ideale della mostra al Diocesano. Mostra che si avvale del suggestivo allestimento curato dall’architetto Davide Nolli e che è impreziosita da un catalogo di Officina Libraria.
Chiude la mostra la Pala Fodri, o meglio il frammento che ne resta. Messa all’asta un paio di anni fa, bloccata dalla Soprintendenza e acquistata dal Diocesano, l’opera è il motore primo da cui è partita la mostra, che cade a cinquecento anni dalla morte dell’artista.
È la prima monografica dedicata a Boccaccino, «raro» ed «eccellente maestro» secondo il Vasari che pure non lo ama e che sottolinea come vedendo le sue opere i colleghi romani «cambiarono la maraviglia in riso».
I dipinti in mostra arrivano da musei importanti, tra cui gli Uffizi, Brera e il Correr, dove sono tutti esposti. Altri, in prestito da collezioni private, sono finora inediti: basterebbe questo a programmare la visita.
Tra tante opere sacre, spicca la Zingarella: non un vero ritratto, ma quasi un esercizio di stile, scelta come immagine simbolo della mostra. Il suo sguardo ci accompagnerà a lungo.
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